Giosuè Borsi: il grande dimenticato della letteratura italiana contemporanea; diciamo meglio: il grande assente: perché, più che dimenticato, in effetti non è mai stato ufficialmente presente. Non, almeno, secondo i suoi meriti, né secondo il significato emblematico che caratterizza la sua figura, nella quale è possibile vedere, in controluce, il dramma, le speranze, gli ideali di una intera generazione: quella degli intellettuali nati qualche decennio dopo l’Unità d’Italia, ma ancora impregnati di spirito risorgimentale, generosi, un po’ sognatori, alla ricerca di un significato più alto da attribuire alla vita e, in alcuni, di una causa per cui valesse la pena di morire.
È la generazione dei nipotini di Carducci, rimasti orfani sia del maestro, sia dei suoi alti ideali; anticlericali e irreligiosi, ma, a loro modo, alla ricerca di una fede; critici e insofferenti della realtà esistente, e desiderosi di cambiamento: irrequieti, in fondo, come lo sono tutti i giovani, ma con il destino di appartenere ad una fase storica di trapasso, coincidente con l’avvento della modernità e con l’entrata in crisi di tutte le vecchie certezze, senza che le nuove fossero ancora riuscite, non già ad affermarsi, ma neppure ad apparire in forma riconoscibile, e tali da poter costituire la stella polare per il futuro, sia immediato che lontano.
Era, anche, la generazione dei figli ideali di Nietzsche, e dei figli naturali (nel senso cronologico) di D’Annunzio. Si faccia caso alle date: quest’ultimo nasce nel 1863, Filippo Tommaso Marinetti è del 1876; nel mezzo, Guido Gozzano (1883), Marino Moretti e Aldo Palazzeschi (1885), Sergio Corazzini (1886); e infine Carlo Michelstaedter (1887). Giosuè Borsi è di un anno più giovane di quest’ultimo, e si spegnerà, breve meteora nel cielo infuocato nella Prima guerra mondiale, appena cinque anni dopo di lui, che si era suicidato nel 1910, nella sua Gorizia: a pochi chilometri di distanza, un tiro d’artiglieria in linea d’aria, o poco più.
Nato a Livorno il 1° giugno 1888, figlio d’un importante giornalista (che fu anche direttore del «Nuovo giornale» di Firenze), Giousè Borsi - così chiamato in onore di Carducci, di cui il padre era amico - ha vissuto una vita breve, appassionata, densa di emozioni, quasi frenetica, sia nelle idee e nella poesia, sia nella dimensione privata e affettiva; elegante, raffinato, d’ingegno vivacissimo, ottimo conversatore, bene accolto nei salotti mondani, il giovanotto fu acclamato e quasi viziato, passò da un amore all’altro, da una donna all’altra, mentre scriveva poesie e novelle (queste ultime, apparse postume) dalla vena sincera, ma ancora acerba; finché una serie di lutti familiari (la morte improvvisa del padre, poi della sorella, infine di un piccolo nipote, da lui teneramente amato) lo misero a nudo con se stesso e costrinsero la sua anima a guardare in faccia il proprio bisogno ardente di verità e autenticità: e ne nacque un uomo nuovo.
Convertitosi al cattolicesimo, dopo una giovinezza irreligiosa e anticlericale, e divenuto terziario francescano, mutò atteggiamento anche nei confronti della donna, la cui immagine ideale trasfigurò di luce e di bellezza i suoi ultimi anni, dopo tanti amori fatui e banali che lo avevano lasciato vuoto e insoddisfatto; testimonianza di questa “conversione” anche nei rapporti con l’altro sesso sarà un piccolo libro commovente, che meriterebbe di essere conosciuto da un più vasto pubblico (cosa cui ci proponiamo di contribuire, per quanto starà in noi, ad una prossima occasione): «Confessioni a Giulia», una specie di stilnovistica «Vita nuova», piena di rispetto e ammirazione per la donna e di consapevolezza della serietà della vita. Egli scrisse quest’operetta commovente fra il 1912 e il 1913 e la indirizzò alla sua Beatrice, rivelando i ricchi tesori d’una sensibilità fresca e, nello stesso tempo, cristianamente aperta al mistero e all’incanto dell’esistenza.
Due furono le passioni dominanti del giovane Borsi dopo la conversione, favorita, quest’ultima, e approfondita, dalla lettura di Manzoni (specialmente delle «Osservazioni sulla morale cattolica») e di Pascal: Dante Alighieri e la donna ideale. Per il sommo poeta fiorentino, egli ebbe una autentica venerazione: non si separava mai dalla «Divina Commedia»; tanto che, arruolatosi volontario nel 1915 per ragioni ideali e patriottiche, continuò a tenerne una edizione, di piccolo formati e stampata su carta India, sottilissima, nella tasca della divisa. Quando recuperarono il suo cadavere, caduto presso Zagora (frazione di Canale d’Isonzo, oggi Kanal ob Soci, in Slovenia), il 10 novembre del 1915, dopo appena due mesi di guerra – era partito per la prima linea il 30 agosto, con il grado di sottotenente, e già si era fatto benvolere dai soldati per la sua bontà e umanità - vi rinvennero, insieme alla fotografia della madre, il poema dantesco.
Così lo scrittore fiorentino Giuseppe Fanciulli (1881-1951), autore di numerosi libri per l’infanzia, un altro grande “dimenticato” della nostra letteratura novecentesca – qualcuno dovrà pure esplorare, un giorno, questa immensa dolina carsica, nella quale è stata inghiottita la memoria, non crediamo per caso, di tanti e tanti significativi scrittori nostri, magari per “far posto” a quelli voluti dall’intellighenzia di sinistra e dalla Vulgata politicamente corretta -, ha rievocato, con accenti commossi e pieni di calda simpatia, l’ultimo incontro con questa strana e affascinante personalità di giovane poeta, la cui importanza come rappresentante ideale di una intera generazione oltrepassa, e di molto, quella che pure gli spetterebbe in un ambito puramente letterario (in: G. Fanciulli, «Gente nostra. Novelle», Società Editrice Internazionale, Torino, 1937, pp. 265-272)
«Riprendemmo a camminare su e giù pel ballatoio, in silenzio.
Io avevo ancora nell’orecchio quella voce che era andata con tanto impeto fra le bandiere: “Io son Sordello della tua terra - e l’un l’altro abbracciava…” Tanto che poi chiesi: - E Dante l’hai lasciato a casa?
Volevo celiare; perché sapevo bene che Giosuè si portava sempre il suo “Dantino” in tasca, per quanto la “Divina Commedia”, ormai, la sapesse quasi tutta a memoria. Tuttavia, Giosuè inarcò i neri sopraccigli, e disse con un viso meravigliato: - Ti pare? Eccolo qui…
Venne fuori il “Dantino”, che aveva una legatura in pergamena con fregio d0’oro sbiadito. Il libro immenso e piccolino stava fra le sue mani come un breviario, e Giosuè lo guardava affettuosamente.
- Io ho dimenticato tante cose importanti - disse dopo un momento, assorto – e Dante me le rammenta ad una ad una; e per questo lo porto sempre con me. Siamo tutti in un tempo di smemorati. Gente alla fiera, che s’indugia davanti alle baracche, e si beve tutte le chiacchiere dei ciarlatani, e s’intontisce ai copi di gran cassa… Tanto che alla fine ognuno è un po’ smarrito, non sa più se vada innanzi o indietro, non ricorda dove abbia la casa, e dove le cose più care… Ma Dante scuote gli addormentati, oggi come ieri, e rammenta…
- Dimmi un canto di Dante! - pregai - Qui hai una sala più degna che in Orsanmichele, e ti ascolta tutta Firenze.
Giosuè sorrideva. Guardava il gran cielo chiaro, e un lento volo di nuvole luminose. Poi cominciò con la voce bellissima l’ultimo canto del “Paradiso”:
“Vergine madre, figlia del tuo figlio.
Umile e alta più che creatura,
Termine fisso d’eterno consiglio…” […]
E prima che nessuno potesse immaginarlo, venne il tempo in cui si svegliarono le vecchie bandiere.
Dichiarata la guerra, vedevo Giosuè più di rado: era soldato, Non aveva obblighi di leva; ma, prima ancora che si venisse alla mobilitazione, aveva fatto domanda per diventare ufficiale; e poi, perché le pratiche andavano in lungo, insofferente d’indugi, si era arruolato semplice soldato. Quando lo vidi per la prima volta vestito in grigioverde, quasi non lo riconoscevo. Era un po’ infagottato nell’uniforme, con gli scarponi che fischiavano sull’impiantito; dimagrato, e arso dal sole; gli occhi parevano più grandi e più luminosi. Quando si levò il berretto, scoprì la testa tutta rasa; e fu il primo a ridere, con quel riso buono, di quella sua figura nuova, che mandava innanzi a confondere gli amici. Si era, ricordo, quella prima volta, nella sala d’una pensione, e intorno al soldatino si raccoglievano dei profughi, di Trieste e di Trento, come a scaldarsi di quel buon sorriso.
Giosuè cantò, in piedi accosto al pianoforte, con la sua voce che aveva dentro un raggio dell’anima. Cantava gl’inni nuovi e antichi che celebravano il cimento della Patria. Lo guardavano tutti, rapiti.
La stessa voce poi udii tante volte, chiara su tante altre, sullo scalpicciare grave dei soldati in marcia, sul tintinnio delle armi e delle gamelle, quando il battaglione rientrava in città, e passava sotto alle mie finestre.
L’ultima volta che l’ho veduto, era già ufficiale, perché la nomina finalmente era arrivata.
Mi parlò con la sua serenità festosa, tutto luce. Quante cose alte aveva scoperto e ritrovato in quegli occhi! Ed era pronto all’incontro più solenne; pronto a incontrare la morte, ragazzo tutto fede e tutto amore.
Già camminava in un altro mondo, nel cielo degli eroi.
“E porto il mio Dante con me;” mi disse: “forse gli farò vedere il suo monumento in Trento, di fronte all’Alpe nostra; forse lo condurrò a risalutare il Quarnaro, “che Italia chiude e i suoi termini bagna”… Gran bel viaggio per il babbo Dante… Perché Lui arriverà fin lassù, anche se io dovrò rimanere a mezza strada…”
Ancora il “Dantino” legato in pergamena era tra le mani lise, e luccicava appena nel fregio d’oro.
Né lo rividi più, se non nel profondo specchio del cuore, là dove sempre egli vive e sorride, insieme con tanti amici che per l’Italia dettero la vita, di tutti il più caro.
Partito per il fronte durante quell’estate, Giosuè scriveva spesso alla madre e agli amici. Poco di sé, molto della guerra. Descriveva sereno e lieto la vita del campo, le marce, i combattimenti; esaltava la lotta che egli sapeva giusta e santa; il sacrificio cercato e accettato nel nome di Dio e della Patria. Certe sue lettere spiravano santità, come se egli fosse il combattente d’un esercito crociato; e a me pareva che davvero dessero voce al fervore e alla devozione di tanti, anche dei più ignari, incapaci di dar parole alla grande azione.
Dovevamo riaverlo fra noi, per qualche giorno, ai primi dell’inverno; e io sognavo di farmi raccontare le sue imprese più belle, lassù nella aerea sala di palazzo Vecchio, tra il fruscio delle votive bandiere. Invece fu colpito, in quel suo cuore tutto amore, il 10 novembre del 1915, a Zagora, mentre in piedi sulla varcata trincea incitava i suoi soldati all’assalto.
Mi parve d’incontrare ancora il suo spirito, quando rientrai nella sua casa vuota, nel suo studio, dove ogni oggetto familiare conservava un tepore di vita. La madre sua aveva gli occhi asciutti, e con ferma voce ci guidava nell’esame di tutte le carte che Egli aveva lasciato; come se da un momento all’altro lui stesso avesse dovuto apparire, lì nel vano della porta, a ringraziarci con un sorriso muto.
Seppi poi che in quella medesima stanza arrivò di lassù, e fu aperta dalla madre, la cassetta che chiudeva il suo corredo di soldato.
Vennero fuori i lindi panni, le lettere legate, tanti oggetti minuti, i libri della preghiera.
E infine, fra le mani della madre, tornò il “Dantino”, fido compagno del figliuolo perduto.
Aveva la pergamena, e molte pagine dentro, tutte annerite, perché nell’ora dell’assalto Giosuè aveva portato il “Dantino” accosto al cuore, e nell’ora della morte col suo sangue l’aveva consacrato.
Prima di arruolarsi e partire per la guerra, Giosuè Borsi aveva fatto il suo bravo esame di coscienza come intellettuale, come giovane uomo e come cristiano. Aveva bruciato molti scritti che ormai non lo soddisfacevano, ed era partito senza rimpianti, più innamorato che mai della vita; ma anche pronto a morire, come testimonia una lettera alla madre, datata ai primi di novembre. Si sentiva fortunato per aver aperto gli occhi sulla bellezza del mondo e sulla profondità del cristianesimo; non aveva paura della morte, anzi pensava che, se gli fosse venuta incontro, egli non avrebbe potuto concludere meglio la sua vita. E basterebbe questo, per attestare la qualità del suo spessore umano...