“I morti sono i migliori colpevoli. Non possono difendersi” ha scritto il grande romanziere americano Raymond Chandler. Questo dovrebbe tenerci svegli, poiché, per quanto ci sforziamo, la verità – se esiste – continuerà a sfuggirci. E non parlo solo di quella giudiziaria.
Ricorre in questi giorni il trentennale di Mani pulite. Sono anniversari di cui faremmo volentieri a meno, ma se non altro servono a mantenerci vigili, anche se quella stagione di inchieste della magistratura non ha certo posto fine alla corruzione, che nel frattempo ha cambiato pelle, assumendo forme pulviscolari. Come molti ricorderanno tutto ha inizio il 17 febbraio del 1992 con l’arresto di Mario Chiesa, esponente del partito socialista milanese e presidente del Pio Albergo Trivulzio, che davanti all’irruzione dei carabinieri si barrica in bagno cercando di far sparire il maltolto (alcune decine di milioni di lire in banconote) nel water, tirando lo sciacquone. C’è perfino del comico in questo inizio.
A denunciarlo è stato l’imprenditore Luca Magni, a capo di una impresa di pulizie, stanco di pagare tangenti per poter lavorare. D’accordo coi carabinieri si presenta da Chiesa con un microfono nascosto. Il terremoto giudiziario che segue a quelle prime manette, tra rivelazioni, interrogatori, confessioni e denunce, porta a decine di arresti eccellenti, facendo affiorare il sistema di corruzione dilagante nel nostro Paese e spazzando via un’intera classe politica: è la fine ingloriosa della cosiddetta Prima Repubblica, che s’inabissa aprendo la via a nuove configurazioni politiche e perfino a un nuovo linguaggio. Molti anche i nomi illustri del mondo imprenditoriale finiti nel mirino di Antonio Di Pietro e degli altri magistrati del pool Mani pulite, da Cesare Romiti, amministratore delegato di Fiat e braccio destro di Gianni Agnelli, a Carlo De Benedetti, all’epoca presidente di Olivetti. E non c’è dubbio che, nell’ambito di quell’inchiesta, il processo Enimont sia stato uno dei filoni principali, quello più attenzionato dai media (anche perché trasmesso in diretta Tv).
In quell’aula giudiziaria sfilano i volti di Craxi (spavaldo) e Forlani (attonito, con un grumo di bava sulle labbra). Un processo incentrato su una presunta maxitangente da centocinquanta miliardi di lire (ma non solo) che sarebbe stata pagata ai partiti da alcuni dirigenti del gruppo Ferruzzi o da Raul Gardini stesso, che però all’epoca non era più ai vertici del gruppo. Una vicenda giudiziaria conclusasi con qualche assoluzione e parecchie condanne, mitigate però da una provvidenziale legge (il decreto Biondi) sfornata calda calda. Sono in molti però a ritenere che le cose sarebbero andate diversamente se Raul Gardini avesse potuto testimoniare. Ma l’imprenditore ravennate è uscito di scena troppo presto. Per mano sua o di altri? È quel che ho cercato di capire scrivendo L’ultima notte di Raul Gardini, edito da Chiarelettere, da poco in libreria.
Riavvolgiamo il nastro. La mattina del 23 luglio 1993 Gardini, a capo di un impero finanziario e industriale secondo, nel nostro Paese, solo a quello degli Agnelli e con ramificazioni dall’America alla Russia, è atteso in procura per essere interrogato (e forse arrestato) dal pm Di Pietro, ma non varcherà mai i cancelli del Palazzo di Giustizia. Pochi minuti prima delle 9:00 il suo corpo verrà ritrovato priva di vita nel suo letto, zuppo di sangue, a Palazzo Belgioioso, nel cuore della Milano degli affari. In mano una pistola, accanto un giornale sulla cui prima pagina si legge a caratteri cubitali: “Tangenti, Garofano accusa Gardini!”. Forse quella notizia è stato il colpo di grazia. Garofano lavorava per lui. E ora gli scarica addosso tutte le responsabilità.
Ricorda Di Pietro: “Per me la sua morte è stata un colpo molto duro, quasi un coitus interruptus. Il suo interrogatorio avrebbe rappresentato una svolta per l’inchiesta e per la storia d’Italia. Avrebbe fatto i nomi dei beneficiari della tangente Enimont da centocinquanta miliardi. Se l’avessi fatto arrestare subito, quella stessa notte, sarebbe ancora qui con noi. È stato questo il mio errore. Quella doveva essere una giornata decisiva per Mani Pulite, purtroppo non è mai cominciata”.
Raul Gardini muore il 23 luglio 1993; l’anno prima il suo “Moro di Venezia” vince la Louis Vuitton Cup
Non tutti però credono all’ipotesi del suicidio, avallata dalla magistratura. Certo, in quei giorni Gardini era un uomo angosciato, braccato: impossibile per uno come lui immaginarsi in una cella, con tutto ciò che ne consegue. Il suicidio di Gabriele Cagliari, presidente dell’Eni e suo rivale in affari, nel carcere di San Vittore tre giorni prima lo aveva sconvolto al punto da fargli dire: “È morto da eroe!”. Di certo la morte di Gardini ha fatto comodo a molti. E diverse cose non tornano in quella morte. A cominciare dalla pistola, che ha cambiato di posto più volte. Poi i colpi in testa: sono stati due o uno? La versione ufficiale dice uno, ma su questo non c’è accordo. E come mai sulle mani di Gardini non sono state riscontrare tracce di polvere da sparo? Un errore tecnico, diranno i giudici. Sono solo alcuni degli interrogativi senza risposta. Senza contare che quella mattina Gardini, poco prima di morire, aveva chiesto al domestico di stiragli i calzoni per uscire: dopo l’incontro in procura, Di Pietro permettendo, era sua intenzione presenziare al funerale di Cagliari. Non è quello che farebbe uno che ha intenzione di togliersi la vita di lì a qualche minuto.
È possibile che abbia ricevuto una telefonata da sconvolgerlo al punto da decidersi per quel passo? Dai tabulati non risulta. E che dire del bigliettino di addio ai familiari ritrovato sul comodino? La prima perizia calligrafica stabilì che era stato scritto un anno prima e poi infilato in un libro di avventure trovato sullo scrittoio (nemmeno sul comodino). Ma una seconda perizia, facendo risalire la datazione di quel bigliettino ai minuti precedenti la sua morte, ha fornito la prova decisiva ai giudici. Quale delle due perizie è da ritenersi più attendibile? Tra coloro che propendono per l’omicidio, si sono fatte strada diverse teorie. Si è ipotizzata la mano della mafia, per via dei rapporti controversi di una delle società del gruppo, la Calcestruzzi Spa, con gli ambienti della malavita organizzata: anni dopo, le parole di un pentito, nell’ambito delle indagini sull’uccisione di Falcone e Borsellino, hanno indotto la procura di Caltanissetta a rioccuparsi del caso. Senza esito.
Gardini non piaceva ai politici e i politici non piacevano a lui. Con loro non ci “avrebbe mangiato insieme nemmeno un piatto di spaghetti” (sono sempre parole di Di Pietro). Li considerava delle sanguisughe, dei “vitelli che non si vogliono svezzare”. Durante il braccio di ferro tra Montedison (Gardini) e Eni (Cagliari) per il controllo di Enimont, ebbe la sfacciataggine di dire: “La chimica sono io”. Craxi se la legò al dito. E non solo lui: non dimentichiamo che all’epoca Eni era la cassaforte dei partiti politici, da cui attingere a piacere e dove piazzare i loro uomini. L’idea che Gardini potesse metterci le mani sopra era intollerabile.
Ma chi era Raul Gardini? Il Contadino, lo chiamavano, perché la sua era una famiglia di proprietari terrieri. Il Corsaro, per le sue scorribande borsistiche. Il Faraone, per il suo carisma e il suo immenso potere. E chi non ricorda le sue avventure in mare, la vela, il vento nei capelli, la Fastnet Race, l’America’s Cup? Gardini era brillante, affascinante ma anche un solitario. Un esteta, un visionario, uno disposto a tutto pur di realizzare i suoi sogni, incluso quello di trasformare l’economia mondiale in un nuovo modello di bio-economia basato su combustibili derivati dai residuati agricoli (da qui l’idea di dare vita a Enimont, nata dalla partnership tra Eni e Montedison). C’è una frase che lo ritrae alla perfezione rendendocelo anche un po’ antipatico: “Per me l’opinione degli altri non conta nulla”. Un monumento alla presunzione, certo. Ma anche un modo per mettere in chiaro un concetto: io rispondo, io mi assumo ogni responsabilità, io decido. E non si può dire che non si sia assunto le sue responsabilità fino in fondo, pagando con la vita. Credo che non conosceremo mai la verità. Una cosa è certa: quella morte ha cambiato il corso del processo Enimont e in un certo senso anche quello della storia.
Gianluca Barbera