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SCRIPTA MANENT

SCRIPTA MANENT

LETTURE SENZA CONFINI


GRAZIE, AQUILA ROSSA! FERRUCCIO BURATTI, UN AUTORE DIMENTICATO

Publié par Francesco Lamendola sur 5 Mars 2022, 16:09pm

Catégories : #Autori sotto la Lente

La modernità ha fatto irruzione, nel nostro Paese, dopo la seconda guerra mondiale, dapprima con la colonizzazione culturale da parte degli Stati Uniti, indi con il “boom” economico, l’urbanizzazione, l’industrializzazione, la laicizzazione; e ha unito la spinta verso il materialismo, il tecnicismo e lo specialismo esasperato con la distruzione sistematica di quel che ancora sopravviveva dell’orgoglio nazionale, del genuino spirito italiano (ed europeo).

In Italia, gli Italiani erano ancora da fare quando è iniziata la penetrazione culturale anglosassone, già notevole nel periodo fra le due guerre mondiali, e quando si è prodotto il silenzioso distacco della morale religiosa da quella “laica” e quotidiana. Il fascismo è stato, fra le altre cose, l’ultimo, disperato tentativo di guadagnare il tempo perduto, di fare gli Italiani e di metterli in grado, come popolo e come nazione, di fronteggiare la marea montante della modernità e dell’americanizzazione: accogliendo quel che meritava di essere accolto, respingendo quel che meritava di essere respinto.

La partita è stata perduta irrimediabilmente l’8 settembre del 1943 e, da allora, non c’è stato più nulla da fare. Poiché,il fascismo era stato il male assoluto, o, quanto meno, una parte del male assoluto, lo si è maledetto, rimosso, cancellato; e, con esso, si è cancellato l’orgoglio nazionale e tutto quel che di buono esisteva nel vecchio sistema di vita e nei valori pre-moderni, a cominciare da quelli religiosi.

La dittatura (ché tale, indubbiamente, era) si era fondata sul principio di autorità, è stato disprezzato e rifiutato ogni principio di autorità; poiché si era fondata sulla famiglia, è stata guardata con sospetto e denigrata la famiglia; poiché aveva proclamato il valore dell’ordine, è stato esaltato il disordine; poiché aveva perseguito il senso dello Stato, si è voluto uno Stato debole e inerme, uno Stato-Pulcinella, preda di qualunque mariolo in vena di burlarsene. E dal momento che il fascismo aveva cercato di difendere ed espandere la cultura nazionale, si è coperta d’insulti la cultura nazionale (una delle prime operazioni: smantellare l’Accademia d’Italia, evidentemente fascista pure quella), mendicando i “lumi” del sapere presso la cultura anglo-sassone e sostenendo che ad essa doveva rivolgersi la “vera” cultura italiana, insomma che la cultura italiana doveva mettersi al passo con quelle più “progredite”, perché era rimasta “arretrata”, “vecchia”, “provinciale” e (ridicolmente) “autarchica”.

Insomma, il progetto mondiale sta, che oggi vediamo dispiegato in tutta la sua forza e in tutto la sua spregiudicatezza, passava attraverso una consapevole distruzione di tutto ciò che si richiamava alla nostra identità, alla nostra tradizione, alle nostre radici, alla nostra (legittima) fierezza nazionale, per sostituire tutto ciò con il relativismo, il consumismo, l’edonismo, l’utilitarismo più grossolani, il tutto, anche, in chiave di sudditanza politica, economica, morale, nei confronti dei veri vincitori della seconda guerra mondiale: le multinazionali e la finanza internazionale.

L’opera, ormai, è giunta a buon punto: i nostri stessi uomini politici non si vergognano di adoperare inutili espressioni inglesi per definire i concetti più semplici della loro azione di governo (la legge sul lavoro che diventa Jobs Act) e, quanto agli intellettuali, essi sono i primi ad avere ammainato la bandiera della nostra lingua per farsi volontariamente servi e maggiordomi dei padroni anglosassoni (se a vincere la Guerra fredda fosse stata l’Unione Sovietica, non c’è dubbio che oggi parlerebbero il russo). Quanto ai vecchi valori che la nostra cara lingua d’un tempo esprimeva – il lavoro, la famiglia, la religione, la patria – sono stati messi nel museo delle cere, non senza averli prima fatti passare, per dileggio, tra due ali di folla che, per alcuni decenni, li ha ricoperti d’immondizia, li ha esecrati e ha scaricato su di essi la colpa di tutti i mali, nazionali e mondiali, del nostro tempo, oltre che del passato.

Codesti valori erano trasmessi non solo dai genitori, dalle maestre, dal parroco, ma anche da quella che allora si chiamava “buona stampa”, specialmente quella rivolta ai bambini e ai ragazzi. Un romanzo destinato ai più giovani poteva esercitare un fascino non piccolo e, nello stesso tempo, trasmettere l’amor di patria, il timor di Dio, il senso del focolare domestico, la nobiltà del lavoro: anche se si è fatto, poi, un gran sogghignare sulla “retorica” e sulla sostanziale “ipocrisia” di libri come «Cuore», di Edmondo De Amicis, rimane il fatto che quel genere di letture non hanno mai fatto male ad alcuno, semmai hanno instillato qualche seme di bene, mentre oggi quel poco che si fa leggere ai fanciulli (ammesso che sia sopravvissuta, sotto il rullo compressore della modernità, quella cosa chiamata “infanzia”), per esempio romanzi come quelli della saga di Harry Potter, se tutto va bene non trasmettono proprio nulla, mentre, nel peggiore dei casi – tutt’altro che infrequente – sono dei veri e propri fattori di diseducazione.

I romanzi per la gioventù degli anni Sessanta conservavano ancora qualche riflesso della grande tradizione educativa di fine Ottocento e dei primi decenni del Novecento; o, quanto meno, lo conservavano quelli pubblicati dalle case editrici ancorate ai valori postivi del passato, ad esempio le gloriose Edizioni Paoline (prima, beninteso, del Concilio Vaticano II e della “svolta” modernista, che ha stravolto tanta parte della stessa stampa cattolica). Sicché quelle letture, unite all’esempio dei genitori, delle maestre (le ultime), dei preti (gli ultimi), hanno contribuito a formare un’ultima generazione di Italiani fieri di essere tali, fieri di essere onesti, risparmiatori, laboriosi, rispettosi della (giusta) autorità, non pieni di rancore contro la propria famiglia, contro il mondo degli adulti, contro tutte le istituzioni e tutte le religioni, non ancora rincretiniti dalla mistica della rivoluzione che, a partire dal 1968, è entrata nel bagaglio obbligatorio di tanti giovani (e anche, bisogna pur dirlo, di tanti adulti bramosi di essere popolari a tutti i costi davanti ai giovani).

A noi, personalmente, è capitato in mano un piccolo libro, all’età di una decina d’anni, che, se la memoria non c’inganna, è stato il primo romanzo mai letto e che, pertanto, ha segnato il primo e decisivo incontro con la letteratura, ma anche coi valori di cui essa, in positivo o in negativo, necessariamente è il veicolo e l’espressione: ed è stato un incontro, appunto, memorabile, come lo è sempre il primo amore nella vita di ogni essere umano. L’autore ci era ignoto, e, comunque, un bambino, di solito, non vi presta attenzione: si getta a capofitto tra le pagine, meglio se illustrate, e, se la storia lo prende, va avanti sino in fondo, quasi senza tirare il fiato, come un nuotatore che punta all’altra riva senza mai fermarsi, finché non è arrivato.

Oggi, a tanti anni distanza, quel piccolo libro ci è tornato fra le mani e, la curiosità ci ha spinto a cercare qualche notizia sull’autore: non abbiamo trovato quasi nulla. Si tratta di Ferruccio Buratti, che fu precettore dei ragazzi Agnelli e che scrisse alcuni romanzi all’epoca del fascismo, verso il quale manifestò piena approvazione (che sia questa la ragione dell’oblio?), precisamente in quanto lo vide come l’argine contro la dilagante marea della modernità, fatta di permissivismo, relativismo, edonismo e d’un rozzo, materialistico cosmopolitismo, negatore delle identità culturali e delle specificità nazionali. Di lui si ricorda a malapena un romanzo di genere poliziesco, «La strega bianca» (dove la “strega” è la cocaina), dalle scoperte finalità morali, apparso nel luglio 1941 nella collana dei Gialli Economici Mondadori; e un romanzo avventuroso per la gioventù, quello appunto che leggemmo a suo tempo, «Aquila Rossa», la cui prima edizione, per la Società Apostolato Stampa, è del 1926, cui seguirono varie ristampe nelle Edizioni Paoline, nella gloriosa collana «Il melograno»: nel 1958, nel 1963, e ancora nel 1970 e nel 1976 (la “nostra” era, probabilmente, quella del 1963).

Il piccolo libro, in sedicesimo, era illustrato dai disegni in bianco e nero di Giuseppe Fiore, mentre la copertina a colori era opera della pittrice Carla Ruffinelli (così come la bella illustrazione che contraddistingue la collana, su due pagine, in seconda e in terza di copertina); va detto che il romanzo, alla sua comparsa, aveva riscosso un buon successo, non solo in Italia, ma anche a livello internazionale, tanto è vero che ne vennero pubblicate delle traduzioni sia in francese («Aigle Rouge») che in spagnolo («Aguila Roja»).

La storia è piuttosto semplice. Il figlio ancor bambino del governatore spagnolo di una piccola colonia in riva al fiume Paranà viene rapito per vendetta dal capo di una tribù del Gran Chaco; il padre, addoloratissimo ma non rassegnato, lo cerca disperatamente; quindici anni dopo lo ritrova, sotto le spoglie di un giovane capo indigeno chiamato Aquila Rossa, ma questi muore trafitto da una freccia che era destinata al vecchio, mentre gli fa scudo col suo corpo. Gran parte del romanzo consiste nella descrizione di viaggi avventurosi, scaramucce fra bianchi e indiani, colpi di scena e buoni sentimenti, il tutto sullo sfondo di una natura selvaggia e affascinante, la cui intatta freschezza pare appena uscita dalle mani del Creatore. Non c’è nemmeno il lieto fine: Juan de Garay, dopo aver perso il figlio e la moglie, stroncata dal dolore, non fa in tempo a ritrovare il giovanotto, che se lo vede spirare fra le braccia; nell’ultimo capitolo vediamo il figlio secondogenito recarsi in visita al manicomio di Madrid, ove il vecchio padre è stato internato, ma questo non lo riconosce, la sua mente è ancora stravolta dalla sofferenza per il dramma vissuto con il primogenito: egli è ormai precipitato, per sempre, nella notte della follia.

Non si può dire che sia un gran romanzo, eppure è una bella storia: possiede tutti gli ingredienti per piacere a un pubblico di giovani ai quali parole come famiglia, patria, fede, onore, dicano qualcosa, perché sono state insegnate loro come cose preziose, le sole capaci d’indicare il giusto cammino da seguire nella vita; la descrizione delle albe e dei tramonti nella foresta o in riva al grande fiume ha qualcosa di entusiasmante; il ritmo narrativo è veloce, sicuro, incalzante; lo stile asciutto, nervoso, senza fronzoli inutili, senza alcuna ridondanza. La conclusione malinconica, priva di facili accomodamenti, lascia pensosi, ma è, a suo modo, istruttiva: non tutto, nella vita, si può sistemare favorevolmente, anche se si possiedono forza, coraggio, tenacia: bisogna essere consapevoli dell’umana fragilità, della piccolezza umana davanti al mistero del reale. Sarebbe stato facile concludere questa storia esemplare di rapimento ed agnizione con un luminoso lieto fine: l’autore non l’ha voluto, e probabilmente ha fatto la scelta migliore. Un libro per ragazzi non deve necessariamente lasciar intendere che c’è sempre una uscita di sicurezza: vi sono cose alle quali non esiste rimedio, almeno in questa vita.

Ad ogni modo, è difficile, se non impossibile, dire perché un certo libro – o un concerto, o un’opera d’arte, o una escursione in montagna, o un viaggio in barca, o un certo incontro con una determinata persona, segnino l’inizio di un nuovo capitolo nostra vita: non lo sapremo mai, checché ne dicano gli psicanalisti freudiani, moderni stregoni dell’inconscio. Loro sono molto sicuri di avere una spiegazione per tutto: se un bambino s’innamora, crescendo, dei monti, è una proiezione della forza fallica; se si appassiona di speleologia, è una discesa nella tiepida penombra della vagina: e via delirando. Da parte nostra, ci limitiamo a riconoscere, umilmente, che «ignoramus et ignorabimus»: prendiamo atto che una scintilla è scoccata, che qualcosa è venuto alla luce, che prima giaceva nell’ombra: si è destato un inizio, e il nostro sviluppo futuro ne resterà segnato. Non resterà segnato dalle cose o dalle persone che abbiamo avuto vicine più a lungo o con maggiore intimità: a volte un contatto breve, brevissimo, è suscettibile di spalancare possibilità inimmaginabili, di trasformare, addirittura, la nostra vita.

Questo è quanto può accadere a un bambino, dopo aver letto un romanzo d’avventura come «Aquila Rossa»: un libro capitatogli in mano per caso, imprestato da un compagno di scuola, e divorato in un solo pomeriggio, pagina dopo pagina, capitolo dopo capitolo, immedesimandosi nella storia, identificandosi con i personaggi, vivendo quelle situazioni: fino al punto di non essere più lì, a casa sua, fra le cose note d’ogni giorno, ma trasportato idealmente nella boscaglia del Gran Chaco, fra giaguari e Indiani bellicosi, tormentato dalla sete o abbagliato dai riverberi del sole tropicale. Per il bambino, giocare o leggere un libro d’avventura suscita una esperienza interiore completamente diversa da quella del’adulto: il bambino perde la nozione del tempo e dello spazio, viaggia con il cuore e con la mente, non guarda le cose dall’esterno, le vive dall’interno, diventa tutt’uno con esse, senza residui.

E al diavolo la critica esigente, superciliosa dell’età adulta. Al diavolo quel cavillare saccente, quel cercare i difetti e le ingenuità: le inverosimiglianze, perfino le tracce di razzismo o, quanto meno, di etnocentrismo… Lasciamo tale sterile approccio all’età adulta: il bambino, per fortuna, sa sognare...

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