I conflitti locali e le guerre di comunità sono il sale della storia.

(Samuel Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale)

La geopolitica russa è per definizione la geopolitica dell’Heartland.

(Alexandr Dugin, L’ultima guerra dell’Isola-Mondo)

La “Storia” ha un futuro? Oppure siamo entrati definitivamente nell’epoca del “senza tempo” che è il tempo lungo dell’ultimo uomo” nicciano come sostiene Fukuyama? Io penso che l’analisi delle vicende geopolitiche mondiali dal 1990 ad oggi ci confermi, Italia esclusa (la nostra nazione conferma al contrario la previsione nichilista di Fukuyama), che la “Storia” con la esse maiuscola si sia rimessa in moto in tutto il mondo reale ma questo dinamismo alla Huntington non sia adeguatamente percepito dalle masse per via dell’altro mondo parallelo oggi dominante: quello della “religione mediatica” per la quale non esiste il corpo né il tempo ma solo la ritualità di massa della fiction.

Appare significativo confrontare tra di loro i due pensieri più importanti in termini di geopolitica del presente e del futuro: oltre all’americano Samuel Huntington, il russo Alexandr Dugin che ci appare sempre più attivo intellettualmente e culturalmente. In cosa si differenziano i loro sguardi politico-culturali sul mondo? Che punti hanno in comune nel tentativo di rimodellare i paradigmi ermeneutici post 1989? Più facile elencare gli elementi di vicinanza tra i due pensatori: la visione di un mondo multipolare, la fine del sogno di un “Impero democratico” mondiale omologato e omologante, la riaggregazione delle dinamiche geopolitiche secondo aree culturali omogenee, la riemersione dell’impatto mondiale dell’idea di “etnos” e di “glossa”, l’opposta tendenza alla tribalizzazione e frammentazione degli Stati Nazione come derivanti dall’Occidentalismo ottocentesco. In pratica si profila e si auspica una “nuova Yalta” secondo la riaggregazione delle sfere d’influenza mondiali in otto aree di “civiltà” (o di quel che ne resta):

  1. area occidentale (America del Nord, Europa occidentale, Oceania);
  2. area latino-americana (America centrale e meridionale);
  3. area islamica (Turchia, Africa del nord, Medioriente, penisola arabica, area persiana, Pakistan, Somalia e Indonesia);
  4. area sinica (Cina, Coree, Taiwan, Giappone, Filippine e Vietnam);
  5. area africana (Africa nera, centrale e meridionale);
  6. area indù (India, Bangladesh, Ceylon);
  7. area buddista (Mongolia, Thailandia, Laos, Cambogia);
  8. area ortodossa (Russia, Kazaghistan, Ucraina, Romania, Serbia, Bulgaria, Macedonia, Grecia, Cipro).

Ciascuna area appare destinata a rimanere o a diventare ancillare rispetto a “Stati guida”, come li chiama Huntington: Usa, Russia, Cina, ad esempio. Più difficile capire chi guiderà l’area islamica, se la Turchia o l’Arabia Saudita oppure l’area sud-americana se il Messico o il Brasile o l’area africana, molto frammentata. Sia Dugin che Huntington cercano quindi di riformulare il pensiero geopolitico aggiornandolo alla fine dei blocchi ideologici e sono stati i primi a farlo già agli inizi degli anni Novanta.

Ma sono pensieri equipollenti? Dugin si riduce ad una versione russa di Huntington? Huntington rappresenta veramente una rinuncia al pensiero imperialista-globalista statunitense come la politica estera di Trump ha permesso di pensare? Andiamo per ordine e concludiamo l’analisi dell’opera più famosa dello studioso newyorkese. Tra le righe personalmente quando leggo la sua più celebre opera avverto un senso di compiacimento per le tendenze belliche e disgregative post- 1989. Va sottolineata, inoltre, una significativa assenza nella sua analisi: la considerazione del fatto che la politica estera Usa post-1989 ha fatto di tutto per creare conflitti etnici e “conflitti di faglia” per una strategia della tensione anarchica e di nuovo tipo che sostituisse la tensione globale Est-Ovest della seconda metà del Novecento.

Basta ricordarne alcuni: Irak (1990-1991; 2003-2011), Yugoslavia e Kossovo (1991-1999), Somalia (2006-2008), Libia (dal 2011, ancora in corso) e Siria (dal 2011 e ancora in corso). Si tratta di guerre di invasione, occupazione e distruzione programmate e volute dai Governi Usa per creare effetti disgregativi di lungo termine che hanno generato faglie di divisione fra Europa occidentale ed Europa orientale e fra Islam sunnita e Islam sciita, oltre ad indebolire le uniche nazioni islamiche. Balance of power, cioè: divide et impera.

Ne valeva la pena? Certamente queste guerre hanno velocizzato una tendenza di riaggregazione culturale che sarebbe avvenuta lo stesso ma non può esistere una via pacifica al multipolarismo? Si vuole cioè sottolineare che il nuovo corso della politica internazionale post-sovietica da parte di molti Governi Usa sia stata sviluppato in senso imperialista-globalista e non in senso multipolare.

Il “multipolarismo” è stato di facciata ed è stato giocato solo quando era utile all’egemonia mondiale a stelle e strisce. Un multipolarismo disgregativo affinché sorga un unico “Ordine mondiale”, come recita la seconda parte del celebre libro, spesso dimenticata. Il pensiero di Huntington da una parte appare pragmatico, non ideologico e realista ma dall’altro rivela, specie nelle sue omissioni di valutazione, una sottile tendenza alla giustificazione della guerra, del caos, della disgregazione antinazionale. Pur concordando con la sua visione generale di riaggregazione dell’umanità secondo un numero limitato di riscoperte identità culturali ritengo che tale visione non sia del tutto compatibile con l’attuale situazione di egemonia militare-commerciale statunitense sui due terzi del mondo. Oltre a ciò non sembra coerente che lo studioso americano non applichi il medesimo criterio di omogeneità culturale neo-tradizionale in relazione all’Europa e al nuovo ruolo polarizzante della Germania, del tutto ignorato. Nel pensiero di questo studioso l’Europa semplicemente non esiste in quanto deve essere appiattita sull’egemonia americana e a tal fine non si valorizzano le differenze fra Europa mediterranea e cattolica ed Europa nordica e protestante. L’omogeneità culturale rivela quindi non facili casi di interpretazione e semplificazione. Fino a quando il semplificare aiuta la pace e non diventa violenza e causa di ulteriori tensioni?

L’idea giusta di Huntington non è di facile realizzazione nel trovare una sintesi e un equilibrio tra le varie componenti del cocktail chiamato “civiltà”!

L’intera opera di Dugin sotto il profilo geopolitico può anche leggersi quale attuazione del pensiero di Huntington dal punto di vista russo: riconfigurare la dimensione della “civiltà” quale nuova “etnosofia” e quale nuovo circolo vitale tra tre componenti: identità, cultura e politeia. Lo stesso Dugin nella sua opera Teoria del mondo multipolare (AGA, 2013) cita Huntington apprezzandone il realismo de-ideologizzato: “…egli avanza un’ipotesi del tutto valida e ad oggi sottovalutata su chi sarà l’attore, il personaggio di questo mondo futuro. Egli chiama questo attore: la civiltà.” Il tema è quindi: cosa sia la civiltà di una determinata area oggi! Dugin rifiuta l’astrattismo ottimistico di Fukuyama, da lui stesso rinnegato, a favore di una concezione della storia non ideologica ma più olistica, continuativa e organica. Un pensatore quindi equilibrato, profetico e proiettato verso il futuro a differenza di un Occidente rimasto invischiato nel suo passato irreale connotato da un universalismo alienante non più sostenibile.

Non a caso Dugin parla di Logoi incarnati nelle molteplici civiltà ancora oggi rivitalizzabili e riscopribili se l’analisi diventa vitale e scende nel profondo. Dugin, quindi, completa e sviluppa le intuizioni di base di Huntington andando oltre i limiti iniziali della sua “mappa delle civiltà”. La definizione di tali identità non appare infatti facile ma bisognosa di una ricerca lenta, attenta e complessa.

Quando l’elemento etnico lascia prevalere quello storico e quando accade il contrario? Quanto va data più importanza all’elemento religioso e quando a quello linguistico? Due facili esempi: lo studioso americano riaggrega le nazioni baltiche nell’Europa occidentale in considerazione del loro fattore storico-genetico che le vede sorgere ad opera della colonizzazione compiuta dall’Ordine Teutonico nel medioevo sebbene siano nazioni slave e componenti di un’Europa orientale e ricomprendano minoranze russe mentre ricomprende Vietnam e Filippine nell’area sinica guidata dalla Cina nonostante le Filippine mostrino ancora oggi un’impronta culturale spagnola e cristiana e il Vietnam viva da tempo una situazione di tensione e rivalità geopolitica regionale con la Cina.

L’idea che la Storia si rimetta in marcia nella direzione della formazione di otto egemonie plurinazionali e a vocazione imperiale può essere una giusta intuizione ma dal 1996 (data di uscita del libro) ad oggi permangono dei deficit di coerenza pragmatica di tale visione. Se riconsideriamo le 8 aree di “civiltà” citate ci accorgiamo subito che mancano ancora gli “Stati-guida” per la vasta, complessa e variegata area islamica, per l’area buddista e per l’area africana mentre la grande potenza economica della Cina ad oggi non riesce ancora ad assorbire il Giappone, il Vietnam e le Filippine e nulla ci garantisce che così accadrà nel prossimo futuro nonostante la crescente interazione commerciale asiatica trainata dalla Cina stessa, né la Russia riesce già a polarizzare tutte le nazioni ortodosse ma anzi con la più seconda più grande nazione ortodossa, l’Ucraina, si trova in una situazione molto vicina alla guerra. Su otto aree di civiltà solo per l’Europa occidentale e l’Oceania, un’area su otto, vale la polarizzazione sotto uno Stato guida” (gli Usa).

Ci sono vaste aree mondiali che non sembrano interessate a farsi assorbire e omologare sotto un unico “Stato-guida” nonostante l’omogeneità culturale delle nazioni che le compongono (America centrale e meridionale, Africa, area buddista e area ortodossa) e ci sono aree immense come quella islamica dove al contrario abbondano i possibili futuri Stati-guida: Turchia, Arabia Saudita, Pakistan, Indonesia, ma sembra ad oggi poco verosimile che questa unificazione possa avvenire considerate le forti differenze geopolitiche, culturali e di interesse economico esistenti all’interno dell’Islam e nonostante l’efficacia dell’Islam stesso quale fattore di coesione e aggregazione interna e internazionale.

Certe scelte di composizione della “mappa delle civiltà” denotano poi un evidente intenzione statunitense di “contenimento” dei più aggressivi competitor come l’indicazione della Mongolia quale nazione appartenente all’area buddista e non a quella sinica e l’indicazione dello stesso Tibet quale area autonoma buddista mentre appartiene alla Cina senza, ad oggi, alcun sentore di conflitti interni o possibilità di distacco. Il difficile per Huntington è resta coerente con il proprio stesso pensiero, con le logiche stesse della sua “mappa futura delle civiltà” in relazione alla sua stessa cultura statunitense di alta accademia, molto vicina al potere governativo e alle sue influenze, anche inconsce e indirette. Il pensiero di un “Huntington più coerente” appare invece a mio parere la visione multipolare del filosofo russo Alexander Dugin.

Lo potremmo definire (a livello geopolitico) un “Huntington pacifico, olistico, spirituale” che unisce “filosofia della prassi” e realpolitik ad una grande visione culturale e spirituale tanto neo tradizionale quale progressiva, creativa, sorgiva.

Se da una parte Dugin cerca comprensibilmente e coraggiosamente di ritessere e ricreare un’identità russa post-sovietica autosussistente e stabile, in continuità organica con l’antichità della Russia ma pure aperta al futuro, dall’altra il suo pensiero appare sinceramente multipolare proprio in quanto ruota attorno al concetto di “Impero” e di vocazione imperiale fondata su particolari carismi etnici.

Per Dugin la Russia è “l’Impero della Terra” a livello archetipale ma questo non esclude né limita altre concorrenti vocazioni imperiali su altri continenti o di altra natura e carisma. Proprio perché si fonda sulla rivalutazione e transvalutazione della dimensione dell’etnos e della glossa, la neo-imperialità russa “alla Dugin” rappresenta per sua natura un sicuro e naturale limite a qualsiasi deriva demagogica e imperialista, anche in relazione alla Russia stessa. La visione russa della multipolarità non appare aggressiva, astratta, ideologica ma naturale espressione di una vitalità russa tesa all’autoconservazione dell’eredità culturale e storica russa e quindi non espandibile né replicabile o esportabile al di là della sfera ideale di influenza data dalla presenza di consistenti minoranze russe europee ed asiatiche.

Sembra cioè dal punto di vista diplomatico una riedizione in salsa russa della dottrina americana di Monroe: l’America agli Americani. Anche volendolo la Russia non potrebbe tornare ad essere Impero in senso rigido ed esclusivista in quanto sono presenti altri due giganti in Asia: la Cina e l’India, a loro volta animati da una tenace volontà di potenza e di autoconservazione, oltre che di proiezione ultra-regionale, come dimostra la stessa cinesizzazione di parte della Siberia russa per via commerciale che sta avvenendo da alcuni anni con la tolleranza del Governo russo.

Mentre il pensiero di Huntington sembra isolato nella sua nazione, gli Usa, e poteva avvicinarsi ad un’influenza sulla politica reale solo con un secondo mandato Trump, e appare accolto solo nella tensione anti-Cina, il pensiero di Dugin appare sia più realista che più fluido e collaborativo e nel contempo maggiormente in risonanza con le emergenze e attualità della politica russa odierna. Che la Crimea ad esempio sia storicamente russa e geopoliticamente abbia più senso con la Russia appare asserzione sottoscrivibile anche da Samuel Huntington se leggiamo attentamente il suo capolavoro. mondo.

Una parte della società turca, ad esempio, ha iniziato a sentirsi più islamica che turca e kemaliana. Anche l’attuale appoggio radicale ad un Ucraina anti-russa non produce effetti socioeconomici favorevoli a nessuna nazione europea e indebolisce in primo luogo l’Ucraina stessa la cui storia e la cui economia è sempre stata interconnessa con la Russia tanto da distinguersi da essa solo da pochi decenni.

Il terzo millennio sembra avviato, spontaneamente o forzatamente ditelo voi, ad una generale tribalizzazione/ri-egemonizzazione secondo il modello post-iugoslavo. Le guerre iugoslave sono state infatti straordinari modelli di sperimentazione del cambiamento del paradigma del conflitto mostrando come tensioni e aggressività locali-regionali possano essere trasformate abbastanza facilmente e rapidamente in conflitti radicali e internazionali di tipo medioevale ma con tutta la ferocia e la volontà di distruzione tipica della modernità e che la tecnologia attuale permette.

Si è trattato delle prime “guerre civili internazionali” proprie di una post-modernità consacrata al dio Kaos dove nulla è più certo e stabile e dove riemergono odi atavici e paure ancestrali. La pacifica e sonnolenta Bosnia articolata da secoli tra serbi ortodossi, bosniaci mussulmani e presenza croato-cattolica (cinquecento anni fa la Bosnia era in pratica amministrata dai Francescani) è stata usata quale perfetto laboratorio di un nuovo conflitto etnico-religioso dal sapore antico con esiti di complessiva e reciproca radicalizzazione ancora in corso e mai del tutto sopiti. Grazie a questa guerra è riemersa da secoli di sonno una faglia geopolitica europea tra Europa dell’Est e Oriente già esistente ai tempi dell’Impero Asburgico e dell’Impero Ottomano.

Tutto sta tornando ma nel Kaos: la guerra in Libia dopo esattamente un secolo (1911-2011), le tensioni fra Russia e Islam in Asia centrale come al tempo dell’espansione zarista e del “Grande Gioco” tra Russia ortodossa e India inglese, l’attuale crescente proiezione imperiale della Turchia sia verso l’Africa che in relazione all’Asia e all’Europa. Nel prossimo futuro sembra emergere in modo essenziale e strategico il concetto di guerriglia (e di anti-guerriglia) per uno stile di vita che sarà sempre più frammentato e conflittuale, anche all’interno nelle società occidentali. Lo stesso studioso americano conclude il suo trattato in modo simile a come si conclude l'intelligente e profetico film anni ‘80 War games: il modo migliore di vincere una guerra è non combatterla!

Huntington immagina una guerra fra Usa e Cina per il controllo del Vietnam (o di Taiwan) e in poche pagine mostra cosa accadrebbe: nessun vincitore se non le nazioni neutrali un effetto domino di aumento del kaos e del ricorso al conflitto quale soluzione dei problemi internazionali. Dall'India contro il Pakistan alla Serbia e alla Croazia contro la Bosnia, dalla Turchia alla Grecia in conflitto tutte le tensioni geopolitiche deflagrerebbero portando il mondo nel baratro. Il pensiero di Dugin e di Huntington convergono anche nel considerare l’assolutizzazione del relativismo e del pluralismo socioculturale il cancro che rischia di dissolvere anarchicamente l’Occidente quale civiltà e si tratta di pensieri che possono essere interpretati in più direzioni, come ogni grande pensiero: cioè quali giustificazioni di nuovi tipi di guerra (strisciante, asimmetrica, terroristica, totale) da parte delle maggiori potenze mondiali oppure quali bagni di sano realismo per una nuova Yalta dai confini meno rigidi, artificiali e ideologici della prima e più in risonanza con le tradizioni culturali dei popoli e delle aree del mondo.

Se vogliamo quindi che il futuro si apra ad un reale “Nuovo Ordine Mondiale” e non regredisca ad un Dis-Ordine da incubo e tribalizzato basterebbe prendere sul serio questi due grandi pensatori e compenetrarne le intuizioni più acute e lucide in una nuova sintesi aggiornata e globale che contemperi una reale attuazione del “principio di autodeterminazione dei popoli” con il rispetto delle “sfere di influenza” di matrice storico-culturale.

Quale aspetto del pensiero di Eraclito prevarrà? Polemos o il Fuoco? La distruzione o la creazione? Dialettica o aut-aut? L’oscurità o il fulmine?

Giacomo Maria Prati

Giacomo Maria Prati (Tortona, 1971) parallelamente ad una formazione giuridica sviluppa un'attitudine e una passione per i linguaggi simbolici, i testi mistici, l'iconologia, i miti e le strutture narrative di determinati linguaggi, prediligendo il ciclo dei romanzi medioevali del Graal,il patrimonio alchemico, i miti di Sparta. Molte le sue passioni: dalla filosofia del diritto al management dei beni culturali. Nell'aprile 2013 esordisce come traduttore con una nuova traduzione del Cantico dei cantici e dell'Apocalisse, accostati ad immagini del Duomo di Milano e del Cenacolo di Leonardo. Dopo aver analizzato in modo innovativo cinque capolavori di arte antica ora sta concludendo un saggio dedicato ad Hermes e uno studio sull'immaginario della deposizione di Cristo al cui interno, non sappiamo come, cita da Gino Paoli a Pinocchio. Attualmente Direttore del Museo della Certosa di Pavia.