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SCRIPTA MANENT

SCRIPTA MANENT

LETTURE SENZA CONFINI


IL MITO DELLA MACCHINA NELLA LETTERATURA ITALIANA

Publié par Simone Germini sur 29 Avril 2022, 07:53am

Catégories : #Società

Essendo un’entità viva in continuo dialogo con i tempi, è naturale che la letteratura plasmi le sue forme ed i suoi contenuti in relazione all’epoca in cui sorge. Nel XIX secolo essa si trova a dover fare i conti con un’impennata economica senza precedenti. L’ombra inquietante del progresso si allunga sulle grandi capitali europee, Londra e Parigi su tutte, trasformandole in metropoli stranianti ricoperte di cemento e di metallo. L’industria, con l’apporto decisivo ed incredibile della macchina, raggiunge livelli produttivi straordinari, impensabili solamente fino a qualche decennio prima. La società muta, nascono nuove classi, quella borghese e quella operaia. L’essere perde la propria individualità confondendosi nella moltitudine, divenendo “uomo-massa”. L’artista si trova dunque in una situazione del tutto nuova, per certi versi spaventosa.

In Italia assistiamo a tali mutamenti con notevole ritardo rispetto all’Europa trainante, soprattutto a causa dell’arretratezza economica e sociale. La letteratura nazionale per gran parte dell’Ottocento rimane legata alla realtà contadina (pensiamo ad autori come Manzoni e Verga, in tutta la loro grandezza, cantori di magnifiche storie agresti). Le prime manifestazioni progressiste vengono accolte con inevitabile e giustificato scetticismo da uno dei membri più illustri del movimento della Scapigliatura, Emilio Praga (1839-1875), che, nella poesia intitolata La strada ferrata, contenuta nel volume Trasparenze, pubblicato postumo nel 1878, rimpiange il mondo di un tempo: «Addio, pace de’ campi pensosi, / solitarie abitudini, addio; / l’operaio sul verde pendìo / già distende il ferrato cammin» (vv. 5-8).

Contrariamente a Praga, Carducci nell’Inno a Satana (1863), si lancia in una celebrazione della locomotiva, simbolo del trionfo scientifico e della libertà illimitata del pensiero umano: «Un bello e orribile / mostro si sferra, / corre gli oceani, / corre la terra: // corusco e fumido / come i vulcani, / i monti supera, / divora i piani, // sorvola i baratri; / poi si nasconde / per antri incogniti / per vie profonde; // ed esce; e indomito / di lido in lido / come in turbine / manda il suo grido, // come di turbine / l’alito spande» (vv. 169-186).

Il primo autore ad avvertire la necessità della creazione di una vera e propria cultura economico-industriale è, neanche a dirlo, Gabriele D’Annunzio, che nel poema Maia (1903), primo volume dell’opera poetica Laudi del cielo, del mare, della terra, degli eroi, inserisce Un inno alla macchina (vv.127-147), eccitata esaltazione dei nuovi valori moderni come la potenza, il dinamismo e la velocità:

O Macchinatore, e una stirpe
di ferro, una sorta di schiavi
foggiata nella sostanza
lucente de’ clìpei dell’aste
degli schinieri, una serva
moltitudine di Giganti
impigri obbedisce ai fanciulli
e alle femmine, meglio
che su triere veloce
al celeùste la ciurma
unta di olio d’oliva.
E non il flauto né il canto
regola il moto con ritmo
eguale; ma una potenza
che non falla, simile al sano
cuore nel petto dell’uomo,
pulsa in quelle ossature
polite e circola in ogni
membro con giro iterato
accelerando il lavoro.
Gran fremito scuote le case.

Una vera e propria apoteosi del mito della macchina, è rappresentata dall’opera La nuova arma (la macchina) (1905), di Mario Morasso (1871-1938), scrittore per molti versi anticipatore del Futurismo, portavoce di una morale superomistica votata alla creazione di una società basata sul “sistema di puro individualismo” definito “egoarchia”. Di seguito, un passo estratto da uno dei brani più rappresentativi del “trattato”, emblematicamente intitolato Gli eroi della macchina, nel quale Morasso celebra la morte epica di un pilota, tale conte Zborowsky, il quale, durante una gara automobilistica, si fracassa il cranio schiantandosi con la sua formidabile e rampante Mercedes nella salita della Turbie, presso Nizza.

Oppresso il saldo cuore da una misteriosa tristezza, ed ogni eroe alla vigilia della sua più alta impresa porta in sé un’ombra di mestizia, forse non gli era apparsa mai così enorme la potenza oscura che egli doveva dirigere infallibilmente, l’uomo della velocità, l’uomo che aveva l’amore calmo del pericolo, salì tremando sul suo trono di ferro, e come quel re che sorpreso da subitanea paura della battaglia gittò via l’elmo e spronò a sangue il cavallo portandosi primo all’assalto, così il conte Zborowsky, impugnò il concavo volante della sua macchina poderosa con la mano finemente inguantata di bianco e stimolò con tale furore tutte le ardenti energie del mostro che esso, con uno slancio prodigioso, a meno di quattrocento metri dalla partenza, si avventava con una velocità di centosei chilometri all’ora in salita aspra. Su quel bolide infuocato, in quell’uragano di metallo e di anime l’uomo riacquistò subito il suo sangue freddo, la sua impassibilità austera; doveva vincere, nulla doveva lasciar intentato, arrivare sull’orlo che separa la vita dalla morte, affrontare il più grande rischio che possa essere sopportato dalla fibra umana. Egli era sacro, come una forza del fato, per la più bella e veemente follia lucida suscitata in cuore d’uomo, la follìa dell’eroismo, la follìa che moltiplica divinamente le energie umane, che fa prorompere i miracoli e accende sulle vette inviolabili roghi donde sale per i secoli il volere di Dio.
[…] Chi lo vide partire e scattare con la sua pesante Mercedes a 60 cavalli alla velocità di un express e prendere al largo il primo svolto, come in una innocua passeggiata, ebbe l’angoscia indimenticabile di chi assiste al compiersi di qualcosa di straordinariamente decisivo, allo svolgersi di una sorte definitiva. O l’uomo poteva superare se stesso, attingere una capacità nuova, o doveva giacere vittima delle cose.
Non era più un uomo quindi che si involava così trascinato da una possa invisibile, avvolto da un nembo di polvere, ma un impeto che al pari di quello mitico di Prometeo e di Icaro si scagliava alla conquista di una facoltà non ancora posseduta dall’uomo. Preso lo slancio alla seconda velocità, egli era in terza velocità cento metri appresso, e dopo, in un batter d’occhio, aveva innestato la quarta, egli radeva il suolo a più di cento chilometri all’ora.
Dall’alto della roccia sovrastante allo svolto della strada vi fu chi vide l’azzurra vettura che puntava dritta, come una saetta scoccata, ad una corsa incalcolabile, contro la rupe, portando il suo signore curvo sul volante.
In un attimo, a venti metri, una mano si agitò, non la sua, ma quella del meccanico, che sgomento, intuendo l’urto, si lasciò andare; egli, il reggitore non palpitò, la sua volontà dura come il macigno sfidava lo scoglio, diede un ultimo colpo di volante verso sinistra, ma le ruote sfioravano già la pietra, niuna forza né umana né sovrumana poteva più guidare o arrestare l’irresistibile impulso.
E l’uomo, l’uomo impavido e calmo come un semidio, signore delle tempeste, non ebbe un tremito, non fece un gesto, non gittò un grido. Fino all’estremo istante le sue mani non abbandonarono il volante e solo l’urlo brutale violento lo strappò di là, dal suo seggio. Egli trascorse sovrumanamente impassibile e immobile quel minuto di angoscia suprema in cui sentì cessare il suo impero sulla macchina, quelli interminabili millesimi di secondo, in cui lo spirito, siccome la bestia presa di mira, attende dal caso di vivere o di morire, finché fu sbattuto, con la più rossa ira di tutte le cose divenute improvvisamente nemiche, contro la pietra e giacque col cranio spaccato, coi polsi frantumati ancora coperti dai candidi guanti.
La vettura avea girato sulla sua punta come su un perno contro l’ostacolo marmoreo, e quasi intatta, nel suo inerte e torvo silenzio, follemente, paurosamente rivelava ancora la inaudita, la incredibile audacia dell’uomo, la fiducia intera che egli avea riposto in se stesso, non trattenendo minimamente il furore del mostro, non ponendo alcun limite alla sua azione, volendo la vittoria assoluta.
[…] Niuno può supporre che lo Zborowsky per la imperizia o per lo spavento non abbia manovrato bene, non si sia giovato dei mezzi efficaci che aveva a portata di mano per rattenere il mostro, rallentarne la corsa ed evitare l’urto, ma deliberatamente, io ripeto, pensando al suo indomito coraggio e alla sua energica e sperimentata abilità, egli non volle servirsene; la macchina doveva dare tutta la sua immane potenza, egli non doveva essere da meno, doveva dare tutto se stesso per vincere; la partita era ingaggiata, la macchina disfrenava tutto il suo fremente vigore; poteva egli nel suo orgoglio d’uomo diminuirne le forze sulla misura della propria debolezza? No! egli non volle, e per questo sia celebrato. Se egli avesse avuto una deficienza, se avesse mostrato una inferiorità, sarebbe stato pronto a pagarla con la vita. E così fece.
Or bene, tutto ciò è grandiosamente bello, è nobilmente eroico, siccome superbamente tragico si è dopo quella corsa disperata il salto brusco nell’al di là; era il salto dalla vita alla morte e quella corsa turbinosa, delirante ci si rivela come una degna, come una magnifica spinta.
[…] Si deve dire alto e forte che la macchina non è affatto un ordegno di morte, ma una immensa moltiplicazione di vita, che essa rappresenta un ordine mirabile e il trionfo della logica sulla incoerenza delle forze naturali, un’armonia della materia creata dall’uomo, e per l’uomo un’impero vergine infinito, una scuola efficacissima per riacquistare una nuova e gagliarda giovinezza, rifarsi una volontà ed ampliare suntuosamente la propria bramosìa di dominio.

M. Morasso, La nuova arma (la macchina), introduzione di C. Ossola, Centro Studi Piemontesi, Torino 1994.

Dicendo addio al Crepuscolarismo, nella sua poesia più celebre, Il saluto ai poeti crepuscolari, contenuta nella raccolta di versi Gli orti, uscita postuma nel 1918, Nino Oxilia (1889-1917) proclama l’avvento di nuovi valori come la forza ed il coraggio guerreggianti, sui quali fondare un avvenire che liquidi il passato: «Morto è il Passato, poeta! / … Domani passeran fischiando i treni / per le ville languidette / del tuo sogno vestito d’ombra e niente: / morto è il Passato e con le baionette / stiamo uccidendo il Presente / per mettere in trono il Futuro…» (vv. 78-80).

Con il movimento Futurista la macchina diviene un vero e proprio oggetto di culto, mezzo e fine della vocazione artistica in qualunque sua forma, metafora totalizzante dell’esistenza. Basta ricordare i punti quarto e quinto del Manifesto del Futurismo (1909) scritto da Marinetti: «4. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia. 5. Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata in corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita».

Agli antipodi dell’ideologia progressista dell’avanguardia Italo Svevo. Il profetico episodio che conclude La coscienza di Zeno (1923), in cui si allude ad un ordigno scagliato sulla terra per riportare la “salute”, è caratterizzato da una inquietante vena pessimistica, che annulla ogni speranza di rinnovamento. La bomba infatti, se gettata, causerebbe solamente la morte di tutti gli uomini, e dunque la fine dell’intero genere umano.

Concludendo, non mancano echi del mito della macchina in Pirandello, in particolar modo nella sua opera Quaderni di Serafino Gubbio operatore (1915), in cui, attraverso il motivo della macchina da presa, il protagonista si trasforma in una sorta di ingranaggio meccanico incapace di comprendere oggettivamente le cose, incapace di distinguere tra il sogno e la realtà.

Fonte: https://imalpensanti.it/2018/03/il-mito-della-macchina-nella-letteratura-italiana/

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