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SCRIPTA MANENT

SCRIPTA MANENT

LETTURE SENZA CONFINI


PAESE INFIDO - ITALO CALVINO

Publié par Italo Calvino sur 19 Avril 2022, 13:29pm

Catégories : #Racconti Brevi

Nel sonno gli pareva  che  una  bestia,  una  specie  di  scorpione,  o  di granchio, gli morsicasse una gamba, sul femore. Si svegliò. Il sole era alto e gli   occhi   di   Tom   restarono   abbagliati:  dovunque   girasse   lo sguardo continuava  a  vedere il  disegno  dei  ritagli  di  cielo  splendente tra  i  rami  dei pini.  Poi  riconobbe  il  posto  dove  s’era  buttato  stanco morto  quando  la gamba ferita aveva cominciato a  fargli  troppo male e c’era  troppo buio per ritrovare la strada dei compagni. Guardò subito la gamba: la fasciatura s’era saldata alla ferita in una dura macchia quasi nera, e intorno c’era gonfio. Pareva una cosa da niente. In combattimento, quando un proiettile l’aveva colpito di striscio, a mezza coscia, non se n’era quasi accorto. Il suo sbaglio era stato, più tardi, mentre si ritiravano per il bosco, dire: -No, no, cammino benissimo, ce la faccio da me! -ma davvero gli pareva di zoppicare solo un poco, allora. Quando tutt’aun tratto arrivò una raffica tra gli  alberi  e  i  partigiani  si  dispersero, Tom  cominciò  a  restare  indietro. Gridare non si poteva, così si perse e venne notte. S’era buttato sugli aghi di pino  e  chissà  quanto aveva  dormito.  Ora  era  giorno  fatto.  Aveva  un  po’”di febbre. E non sapeva dove si trovava. S’alzò. Imbracciò il moschetto e s’appoggiò a un ramo di nocciolo che gli faceva da bastone fin dal giorno prima. Non sapeva dache parte prendere: il bosco  non  gli  lasciava  vedere  intorno.  Sul  costone del  monte  c’era  una roccia grigia; Tom, faticosamente, vi salì. Vide la valle aprirglisi dinanzi. Sotto l’immobile campana del cielo, giusto nel  mezzo,  era  un  paese,  ammonticchiato  su  un  cocuzzolo  e circondato  di magre vigne digradanti intorno. Una polverosa strada carrozzabile veniva su a tornanti. Tutto era silenzioso e fermo. Non un essere umano che sbucasse dalle  case  o  nei  campi.  Non  il  volo d’un  uccello.  La  strada  vuota  al  sole, come fosse stata tracciata perle lucertole. Di nemici, nessun segno: così che nemmeno pareva d’essere all’indomani d’una battaglia. Tom era già stato in quel paese. Non di recente, ma alcuni mesi prima. Da qualche  mese i partigiani non vi facevano più che puntate di pochi uomini, senza  fermarsi,  perché -sebbene  non  vi  fosse  un presidio  nemico  stabile -era collegato da diverse strade ai paesi dove i nemici erano acquartierati in forze, e poteva essere una trappola. Ma,  nei  mesi  buoni,  quando  tutta  la  zona  era  in  mano  partigiana e si girava per i paesi come a casa propria, Tom ricordava  una  giornata passata

in  quel  paese,  ricordava  ragazze  che  portavano  fiori, piatti  di  tagliatelle  su tavole  imbandite,  e  un  ballo  all’aperto,  e  facce amiche,  e  canti.  “Andrò  al paese, -si disse Tom, -troverò certo gente che m’aiuterà e mi farà ritrovare i compagni” .Ma  intanto,  gli  tornava  in  mente  una  frase  sentita  dire  da  un compagno, Fulmine,  una  frase  cui  allora  non  aveva  dato  peso.  Durante quella  festa, Fulmine  aveva  detto  qualcosa  riguardo  a  tutti quelli  del  paese  che  gli sarebbe piaciuto proprio incontrare e che invece non si facevano vedere… E sghignazzava,  Fulmine, nella  sua barba  nera,  e  carezzava  il  calcio  del  suo archibugio.  Ma  Fulmine  era uno  che  parlava  sempre  a  quel  modo,  e  Tom scacciò quel ricordo dalla testa. Uscì dal bosco e scese sullo stradone. Il sole era  sempre  luminoso ma  s’era  come  infiacchito nell’intensità e nel calore. Il cielo era percorso da nuvole gialle. Tom avanzava cercando di non piegare la gamba perché non gli dolesse; gocciole di sudore gli imperlavano la  fronte;  non  vedeva  l’ora  di  raggiungere le  prime  case,  ma  ancor  più  di scorgere qualcuno, un segno di vita, in quell’abitato che pareva un mucchio di tegole e di finestre chiuse. Sul  muro  che  cintava  un  campo  c’era  un  manifesto.  “Bando” diceva.  “Il comando militare germanico promette a chiunque aiuterà a catturare vivo o morto  un  bandito  ribelle…”  Tom  con  la  punta del  bastone  strappò  la  carta; ma dovette far forza, perché era incollata bene e resisteva. Dopo il muro correva un recinto di rete metallica. Una gallina beccava in terra,  all’ombra  d’un  fico.  Se  c’era  una  gallina  doveva esserci  pure  qualche essere  umano,  e  Tom  guardava  di  tra  la  rete metallica  e  di  tra  le  foglie  di zucca che salivano a una pergola: finché scoperse una  faccia, ferma, gialla, come una zucca, che lo guardava. Era  una  vecchia  avvolta  in  panni  neri. -Ehi! -fece  Tom, e  la vecchia silenziosamente gli voltò le spalle ed andò via. Anche la gallinasi girò e le andò dietro. -Ehi! -fece ancora Tom, per richiamarle, ma vecchia e gallina sparirono in  una  specie  di  pollaio  e  si  sentì un  rumore  di  chiavistello arrugginito. Tom  proseguì.  Il  dolore  alla  gamba  gli  si  faceva  più  forte,  gli  dava una specie di nausea. Più avanti s’apriva l’ingresso d’un’aia. Tom vi entrò. In mezzo all’aia c’era un grosso maiale immobile. Un uomo veniva avanti lentamente, un  vecchio  decrepito,  col  cappello sugli  occhi,  e una mantellina, nonostante il caldo. Tom gli andò incontro. -Senta,  non  ci  sono  mica  tedeschi  in  giro,  oggi? -chiese.  Il vecchio  si fermò, non alzò il viso, scuotè il capo e come brontolando tra sé disse: -… Tedeschi?… Non so, io… Mai visti, qui, tedeschi…

-Come, mai visti? -disse Tom. -E ieri? Non sono saliti da questa parte, ieri? Non c’è stata la battaglia? Il vecchio si strinse nella mantellina: -Io non so, non so niente… -Tom  ebbe  un  moto  d’impazienza.  La ferita gli  tirava;  sentiva i muscoli aggricciarglisi. E si trovò di nuovo fuori. La strada saliva tra le case. Forse addentrarsi nel paese non era prudente, così da solo, e invalido; ma Tom era pur sempre armato, e poi ricordava la festosa  accoglienza  di  quel  giorno  lontano,  che testimoniava  quanti  amici avessero i partigiani in mezzo agli abitanti. Ecco che, all’angolo della  prima  casa, scantonò un  uomo, un tipo grasso, con  una  corta  collottola  rossa.  Tom  gli  andò  dietro:  saliva per  una  scala esterna. -Senta, -disse  Tom,  ma  l’uomo  non si voltava  e  Tom salì dietro di lui e riuscì a impedirgli di chiudere la porta. -Cosa volete? -disse l’uomo grasso. Tom si  trovava  di  fronte  a  una  tavola  imbandita,  con  un  minestrone fumante,  e  una  famiglia  formata  da  tre  donne  pettorute  e baffute  e  da  un magro  giovinetto  con  un’eguale  peluria  sul  labbro, tutti  seduti  coi  cucchiai in mano.- Un   piatto   di   minestra, -disse   Tom   avanzando   deciso. -Sono quarantott’ore che non mangio. Sono ferito. Gli  sguardi  delle  grosse  donne  e  del giovinetto  si  spostarono  dal viso  di Tom a quello del capofamiglia, che soffiò un po’”col naso e poi rispose: -È proibito. Non possiamo. C’è il bando. -Il  bando? -disse  Tom. -Ma  di  che  cosa  avete  paura?  Non  c’è mica  un presidio tedesco, in paese! Il bando, lo si strappa!-È proibito… -disse ancora l’uomo grasso. “Ora  gli  punto  il  fucile  contro”,  pensò  Tom,  ma  si  sentiva  debolissimo e dovette  puntellarsi al bastone. Avrebbe  voluto sedersi, ma  nella  stanza  non c’erano sedie libere. Girando  lo  sguardo vide,  a  una  parete,  seminascosto  da  un  calendario olandese,  il  quadro  di  un  cavallo.  Era  un  cavallo  muscoloso e pettoruto,  e sulle  staffe  aveva  due  stivali  neri  e  sopra  gli  stivali una  divisa  panciuta  e costellata di medaglie, e il resto era nascosto. Tom alzò il calendario e vide la ganascia e l’elmo luccicanti di Mussolini. -E questo qui, cosa ci fa? -chiese. -Oh, questo qui, un vecchio quadro, è tanto che non mettiamo in ordine, -disse l’uomo grasso, e si mise ad armeggiare come volesse nasconderlo, ma nello stesso tempo spolverarlo e conservarlo intatto.

-Io  non  capisco, -disse  Tom,  quasi  parlando  per  conto  suo, -eppure, qualche mese fa ci avete accolto così bene, in questo paese…Le tagliatelle… il ballo… i fiori… Non vi ricordate?-Mah… Noi non eravamo in paese, allora… -disse l’uomo. -Le  tagliatelle,  però, -non  poté  trattenere  dal  saltar  su  una  delle donne baffute, -erano della nostra farina! Trenta sacchi… -ma s’interruppe, perché il marito le faceva gli occhiacci. Tom  ricordava  le  parole  di  Fulmine. -Ma  allora, -chiese, -quelli  di allora, i nostri amici, dove sono…?-Mah… -disse  l’uomo  grasso, -non  so…  molte  famiglie  si  sono…trasferite,   in   questi   ultimi   tempi…   Giovanotto,   andate   al   municipio, presentatevi al podestà, lì potranno assistervi…”Al  podestà?  Gli  sparo  tutto  un  caricatore  nello  stomaco,  al  vostro podestà!” voleva dire Tom, ma si sentiva mancare, e l’uomo grasso lo stava spingendo, pur quasi senza toccarlo, fuori della porta. -D’un medico, ho bisogno… Sono ferito…-Sì,  sì,  il  medico, -diceva  l’uomo  grasso, -lo  troverete  in  piazza, è sempre  lì  a  quest’ora… -e  intanto  l’aveva  spinto  sulla  scala,  egli  aveva chiuso la porta alle spalle. Tom  si  ritrovò  in  strada.  C’era  un  po’”di  gente,  adesso,  che  discuteva sottovoce,  in  crocchi,  e  si  scostava  vedendolo  passare  e sfuggiva  il  suo sguardo.  Vide  un  prete  lungo,  allampanato,  con  un colorito  bianco  avorio, che  parlava  con  una  donna  bassottina  e spettinata,  e,  gli  parve,  indicavano col dito lui, Tom. A Tom, che avanzava sempre più a fatica, zoppicando, pareva di rivedere sempre  le  stesse  facce  che  aveva  sorpassato  prima;  e  quel prete  dal  viso d’avorio  appariva  e  spariva,  discutendo  sottovoce  in ogni  crocchio.  Tom s’accorse  che  a  poco  a  poco  l’atteggiamento  di quei  paesani  verso  di  lui stava  cambiando,  lo  guardavano  con  occhio interessato,  con  certi  melliflui sorrisi,  finché  quella  donna  bassottina che  aveva  parlato  col  prete  non  gli trotterellò vicino e gli disse:-Povero ragazzo, non ti reggi in piedi, vieni con me. Era una donnetta con la faccia di faina; dal registro che aveva in mano e dall’impolveratura di  gesso  sparsa  su  di  un  vestito  nero  che pareva  una divisa riadattata, si sarebbe detta una maestra.  -Sei venuto a presentarti? Bravo! -diceva la maestra, e cercava, come per alleviarlo da un peso, di sfilargli il fucile dalla spalla. Ma Tom teneva la mano stretta alla cinghia e si fermò. -Cosa? Presentarmi? E a chi?

La   maestra   gli   aveva   aperto   la   porta   d’un’aula.   I   banchi   erano ammonticchiati in   un   angolo,   ma   c’erano   ancora,   appesi   alle   pareti, cartelloni  con  scene  della  storia  romana,  trionfi  di  imperatori,  e  carte geografiche della Libia e dell’Abissinia. -Siediti qui, a scuola, e ti portiamo subito una minestrina, -diceva la maestra, e faceva per chiuderlo dentro. Tom la spinse via. -Un medico, -disse. -Ora devo andare dal medico -. Tra  la  gente  della  piazza  c’era  un  ometto  nerovestito  con una  gran  croce rossa su una fascia bianca attorno al braccio. -Lei è il dottore, vero? -disse Tom. -Vengo da lei un momento! L’ometto spalancò una bocca sdentata, guardandosi intorno come incerto. Ma quelli che gli erano vicino lo sospinsero, lo consigliarono sottovoce ed il medico avanzò verso Tom, indicò la croce rossa sul braccio, disse: -Io sono neutrale, non conosco né gli uni né gli altri, faccio il mio dovere. -Ma  sì,  ma sì, -disse  Tom, -che  me  ne importa? -e  lo seguì verso  una casa lì sulla piazza. La gente teneva loro dietro a una certa distanza, finché non si fece  largo tra  loro un tipo dall’aria autorevole e nervosa, coi calzoni alla zuava, che faceva segno di lasciare che pensasse lui a tutto. Tom seguì il  medico in uno studio semibuio e  puzzolente d’acido fenico. Garza  sporca,  siringhe,  bacinelle,  stetoscopi  erano  sparsi  intorno in  gran disordine.  Il  dottore  aperse  le  persiane  ed  un  gatto  saltò via  dal  lettino clinico.- Qui,  stendi  la  gamba  qui, -diceva  il  medico,  soffiando  un  alito da avvinazzato.  Tom  si  ficcò  i  denti  nelle  labbra  per  non  gridare,mentre l’ometto, con mani tremolanti e sgraziate, gli incideva la gamba. -Una bella infezione, -diceva, -una bella infezione -. A Tom pareva che non finisse mai. Ora aveva preso a svolgere un rotolo di garza, ma s’imbrogliava e invece di fasciargli la gamba  faceva  girare quella garza dappertutto, anche  intorno al  lettino,  alle  braccia  di  Tom,  finché  lui  non  gli strappò  tutto  di  mano, gridando: -Ma  lei  è  ubriaco!  Faccio  io! -e in  quattro  e  quattr’otto  si  fece una fasciatura perfetta, ben aderente, lungo tutta la coscia. -Presto,   delle pastiglie   febbrifughe, -disse,   e   poiché   il   medico cincischiava nella confusione dei campioni di medicinali sparsi dappertutto, ci  mise  le  mani  lui,  lesse  il  nome  di  un  tubetto,  ne  trasse due  pastiglie,  le inghiottì, intascò il tubetto. -Grazie  di  tutto, -disse,  riprese  il  fucile,  e  uscì.  Ma  gli  girava  la testa. Sulla soglia sarebbe caduto se non ci fosse stato ad aspettarlo lì quell’uomo coi  calzoni  alla  zuava  che  lo  sorresse. -Ma  tu  devi  ristorarti, riposarti… Devi essere sfinito… -diceva. -Vieni, vieni a casa mia… -E indicava, oltre

un  cancello  di  ferro,  una  costruzione mezzo  villa  e  mezzo  casa  colonica. Tom, con la vista annebbiata, lo seguì. Il  cancello,  appena  entrati,  si  chiuse  di  scatto.  Nonostante  la  forma antiquata, aveva una serratura di sicurezza. In quel momento, dal campanile cominciarono  a  cadere  dei  rintocchi,  in  una  successione ritmata,  sempre uguale,  lenta  come  suonasse  a  morto,  ma scandita  come  un  messaggio telegrafico.  “Come  un  messaggio…”pensò  Tom,  concentrandosi  su  quel suono  per  non  lasciarsi  venir meno. -Cos’è? -chiese  all’uomo  coi  calzoni alla zuava. -Perché suonano le campane a questo modo? E a quest’ora?-Niente,  niente, -rispose  quello. -È  il  pievano.  Ci  sarà  una funzione, credo. L’aveva  fatto  entrare  in  una  specie  di  salotto  buono,  con  poltrone e sofà. Sul tavolo c’era preparato un vassoio con bottiglia e bicchierini.- Assaggia  questo  rosolio! -disse,  e  prima  che  Tom  avesse potuto protestare  che  di  ben  altro  aveva  bisogno,  gli  aveva  fatto trangugiare  un bicchierino. -Ora  vado  a  ordinare  il  pranzo,  con  permesso, -e  uscì.  Tom  si lasciò andare  sul  sofà.  La  testa  gli  ciondolava  seguendo  quel  batteredi  campane: “Don dan din! Don dan dan!” e si sentiva calare giù in un sonno molle e senza fondo.  Fissava  una  macchia  nera  sul  ripiano del  buffè  di  fronte  a  lui,  e  la macchia  nera  si  dilatava,  perdeva i  contorni,  e  Tom  per  lottare  contro  il sonno cercava di mettere  bene a fuoco col suo sguardo quella macchia, ecco che  riprendeva  concretezza  e  dimensioni  normali,  era  un  oggetto  basso  e tondo,  ecco  che  se  ancora  teneva  alzate  le  palpebre  sarebbe  riuscito  a discernere  cos’era: un copricapo, era, tondo e nero, con una lucida frangia di fili di seta che gli pioveva dal cocuzzolo: un fez da gerarca,  conservato sotto una campana di vetro sul buffè. Ora  Tom  era  riuscito  ad  alzarsi  dal  divano.  In  quel  momento  l’aria gli portava  come  un  lontano  ronzio.  Tese  l’orecchio.  Da  qualche parte  doveva passare   un   autocarro.   Un   autocarro   o   più   d’uno,   con un   rombo   che s’avvicinava  di  secondo  in  secondo.  Tom  cercava  con tutte  le  forze  di vincere  il  torpore  che  l’aveva  invaso.  Al  segnale  della campana  pareva rispondere  quel  rombo  di  motore  che  già  faceva tintinnare  leggermente  i vetri. E la campana, finalmente, tacque. Tom andò alla  finestra, scostò una  tendina. La  finestra  dava  inun cortile acciottolato, dove lavorava un cordaio coi suoi garzoni. Tom  non  riusciva  a  vederli  in  faccia;  parevano  tipi  anziani,  duri,con spessi baffi neri. Silenziosi, muovendosi in fretta, tendevano e arrotolavano una gran treccia di canapa, per farne una fune. Tom si voltò, s’afferrò alla maniglia della porta. Cedeva.

Nell’androne  si  trovò  di  fronte  a  tre  porte  chiuse.  Due  erano  chiuse  a chiave,  la  terza  era  un  basso  usciolo  che  s’aperse  su  una  scala  di mattoni, buia.  Tom  scese  e  si  trovò  in  una  larga  stalla  vuota.  Alle mangiatoie, vecchio  fieno.  Tutt’intorno,  inferriate.  Non  si  vedeva via  d’uscita.  Il  rombo dei  motori  ingigantiva,  era  forse  un’intera autocolonna  che  saliva  in  una spessa  nuvola  di  polvere  su  per  i  tornanti della  strada  verso  il  paese.  E  lui era in trappola. Ed  ecco  Tom  sentì  una  vocetta  che  lo  chiamava: -Partigiano! dì, partigiano! -e  da  un  mucchio  di  fieno  venne  fuori  una  bambina con  le trecce. Aveva in mano una mela rossa. -Tieni, -disse, -mordila e vieni con me, -e gli indicò dietro il mucchio di fieno una breccia nel muro. Uscirono in un campo incolto pieno di gialli fiori selvatici stellati. Erano   dietro   il   paese.   Sopra   di   loro   s’alzavano   le   mura   diroccate dell’antico castello. Si sentiva il rumore degli autocarri che dovevano essere già all’ultima svolta. -M’hanno mandato a insegnarti la strada per scappare, -disse la bambina. -Chi? -fece  Tom  mordendo  la  mela,  ma  era  già  sicuro  che  di quella bambina poteva fidarsi a occhi chiusi. -Tutti. Tutti noi che non possiamo farci vedere in paese e stiamo nascosti. Se no ci fanno la spia. Io ho due fratelli partigiani, sai, -aggiunse, -conosci Tarzan? Conosci Bufera?-Sì, -disse Tom. “Ogni paese, -pensò, -anche quello che pare più ostile e disumano, ha due volti; a un certo punto finisci per scoprire quello buono, che c’era sempre stato, solo che tu non lo vedevi e non sapevi sperare”. -Vedi questo sentiero tra le vigne? Scendi pure di là, non è in vista. Poi passa quel ponticello, più presto che puoi, sta attento, è allo scoperto. Entra  nel  bosco.  Sotto  la  quercia  grossa  c’è  una  caverna con  dentro  tanta roba da mangiare. Stanotte passerà una ragazza che si chiama Susanna: fa la staffetta e ti condurrà dai compagni. Va, partigiano, va, fa in fretta! Tom  ora  scendeva  tra  le  vigne,  e  non  sentiva  quasi  più  il  dolore alla gamba,  e  oltre  il  ponticello  si  stendeva  il  bosco  fitto,  oscuro, d’un  verde nero,  che  i  raggi  del  sole  non  riuscivano  ad  attraversare.  E  più  forte  si sentiva  il  rombo  dei  motori  nel  paese  più  fitto  e  oscuro gli  sembrava  il bosco. “Se riesco a buttare il torsolo della mela nel torrente, sono in salvo”, pensò Tom. La bambina con le trecce, su dal campo incolto, vide Tom che traversava il ponticello, nascosto dietro il muretto, e poi il torsolo cadere in un limpido laghetto del torrente alzando spruzzi sulle canne.

Batté le mani e se ne andò.

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