Nel sonno gli pareva che una bestia, una specie di scorpione, o di granchio, gli morsicasse una gamba, sul femore. Si svegliò. Il sole era alto e gli occhi di Tom restarono abbagliati: dovunque girasse lo sguardo continuava a vedere il disegno dei ritagli di cielo splendente tra i rami dei pini. Poi riconobbe il posto dove s’era buttato stanco morto quando la gamba ferita aveva cominciato a fargli troppo male e c’era troppo buio per ritrovare la strada dei compagni. Guardò subito la gamba: la fasciatura s’era saldata alla ferita in una dura macchia quasi nera, e intorno c’era gonfio. Pareva una cosa da niente. In combattimento, quando un proiettile l’aveva colpito di striscio, a mezza coscia, non se n’era quasi accorto. Il suo sbaglio era stato, più tardi, mentre si ritiravano per il bosco, dire: -No, no, cammino benissimo, ce la faccio da me! -ma davvero gli pareva di zoppicare solo un poco, allora. Quando tutt’aun tratto arrivò una raffica tra gli alberi e i partigiani si dispersero, Tom cominciò a restare indietro. Gridare non si poteva, così si perse e venne notte. S’era buttato sugli aghi di pino e chissà quanto aveva dormito. Ora era giorno fatto. Aveva un po’”di febbre. E non sapeva dove si trovava. S’alzò. Imbracciò il moschetto e s’appoggiò a un ramo di nocciolo che gli faceva da bastone fin dal giorno prima. Non sapeva dache parte prendere: il bosco non gli lasciava vedere intorno. Sul costone del monte c’era una roccia grigia; Tom, faticosamente, vi salì. Vide la valle aprirglisi dinanzi. Sotto l’immobile campana del cielo, giusto nel mezzo, era un paese, ammonticchiato su un cocuzzolo e circondato di magre vigne digradanti intorno. Una polverosa strada carrozzabile veniva su a tornanti. Tutto era silenzioso e fermo. Non un essere umano che sbucasse dalle case o nei campi. Non il volo d’un uccello. La strada vuota al sole, come fosse stata tracciata perle lucertole. Di nemici, nessun segno: così che nemmeno pareva d’essere all’indomani d’una battaglia. Tom era già stato in quel paese. Non di recente, ma alcuni mesi prima. Da qualche mese i partigiani non vi facevano più che puntate di pochi uomini, senza fermarsi, perché -sebbene non vi fosse un presidio nemico stabile -era collegato da diverse strade ai paesi dove i nemici erano acquartierati in forze, e poteva essere una trappola. Ma, nei mesi buoni, quando tutta la zona era in mano partigiana e si girava per i paesi come a casa propria, Tom ricordava una giornata passata
in quel paese, ricordava ragazze che portavano fiori, piatti di tagliatelle su tavole imbandite, e un ballo all’aperto, e facce amiche, e canti. “Andrò al paese, -si disse Tom, -troverò certo gente che m’aiuterà e mi farà ritrovare i compagni” .Ma intanto, gli tornava in mente una frase sentita dire da un compagno, Fulmine, una frase cui allora non aveva dato peso. Durante quella festa, Fulmine aveva detto qualcosa riguardo a tutti quelli del paese che gli sarebbe piaciuto proprio incontrare e che invece non si facevano vedere… E sghignazzava, Fulmine, nella sua barba nera, e carezzava il calcio del suo archibugio. Ma Fulmine era uno che parlava sempre a quel modo, e Tom scacciò quel ricordo dalla testa. Uscì dal bosco e scese sullo stradone. Il sole era sempre luminoso ma s’era come infiacchito nell’intensità e nel calore. Il cielo era percorso da nuvole gialle. Tom avanzava cercando di non piegare la gamba perché non gli dolesse; gocciole di sudore gli imperlavano la fronte; non vedeva l’ora di raggiungere le prime case, ma ancor più di scorgere qualcuno, un segno di vita, in quell’abitato che pareva un mucchio di tegole e di finestre chiuse. Sul muro che cintava un campo c’era un manifesto. “Bando” diceva. “Il comando militare germanico promette a chiunque aiuterà a catturare vivo o morto un bandito ribelle…” Tom con la punta del bastone strappò la carta; ma dovette far forza, perché era incollata bene e resisteva. Dopo il muro correva un recinto di rete metallica. Una gallina beccava in terra, all’ombra d’un fico. Se c’era una gallina doveva esserci pure qualche essere umano, e Tom guardava di tra la rete metallica e di tra le foglie di zucca che salivano a una pergola: finché scoperse una faccia, ferma, gialla, come una zucca, che lo guardava. Era una vecchia avvolta in panni neri. -Ehi! -fece Tom, e la vecchia silenziosamente gli voltò le spalle ed andò via. Anche la gallinasi girò e le andò dietro. -Ehi! -fece ancora Tom, per richiamarle, ma vecchia e gallina sparirono in una specie di pollaio e si sentì un rumore di chiavistello arrugginito. Tom proseguì. Il dolore alla gamba gli si faceva più forte, gli dava una specie di nausea. Più avanti s’apriva l’ingresso d’un’aia. Tom vi entrò. In mezzo all’aia c’era un grosso maiale immobile. Un uomo veniva avanti lentamente, un vecchio decrepito, col cappello sugli occhi, e una mantellina, nonostante il caldo. Tom gli andò incontro. -Senta, non ci sono mica tedeschi in giro, oggi? -chiese. Il vecchio si fermò, non alzò il viso, scuotè il capo e come brontolando tra sé disse: -… Tedeschi?… Non so, io… Mai visti, qui, tedeschi…
-Come, mai visti? -disse Tom. -E ieri? Non sono saliti da questa parte, ieri? Non c’è stata la battaglia? Il vecchio si strinse nella mantellina: -Io non so, non so niente… -Tom ebbe un moto d’impazienza. La ferita gli tirava; sentiva i muscoli aggricciarglisi. E si trovò di nuovo fuori. La strada saliva tra le case. Forse addentrarsi nel paese non era prudente, così da solo, e invalido; ma Tom era pur sempre armato, e poi ricordava la festosa accoglienza di quel giorno lontano, che testimoniava quanti amici avessero i partigiani in mezzo agli abitanti. Ecco che, all’angolo della prima casa, scantonò un uomo, un tipo grasso, con una corta collottola rossa. Tom gli andò dietro: saliva per una scala esterna. -Senta, -disse Tom, ma l’uomo non si voltava e Tom salì dietro di lui e riuscì a impedirgli di chiudere la porta. -Cosa volete? -disse l’uomo grasso. Tom si trovava di fronte a una tavola imbandita, con un minestrone fumante, e una famiglia formata da tre donne pettorute e baffute e da un magro giovinetto con un’eguale peluria sul labbro, tutti seduti coi cucchiai in mano.- Un piatto di minestra, -disse Tom avanzando deciso. -Sono quarantott’ore che non mangio. Sono ferito. Gli sguardi delle grosse donne e del giovinetto si spostarono dal viso di Tom a quello del capofamiglia, che soffiò un po’”col naso e poi rispose: -È proibito. Non possiamo. C’è il bando. -Il bando? -disse Tom. -Ma di che cosa avete paura? Non c’è mica un presidio tedesco, in paese! Il bando, lo si strappa!-È proibito… -disse ancora l’uomo grasso. “Ora gli punto il fucile contro”, pensò Tom, ma si sentiva debolissimo e dovette puntellarsi al bastone. Avrebbe voluto sedersi, ma nella stanza non c’erano sedie libere. Girando lo sguardo vide, a una parete, seminascosto da un calendario olandese, il quadro di un cavallo. Era un cavallo muscoloso e pettoruto, e sulle staffe aveva due stivali neri e sopra gli stivali una divisa panciuta e costellata di medaglie, e il resto era nascosto. Tom alzò il calendario e vide la ganascia e l’elmo luccicanti di Mussolini. -E questo qui, cosa ci fa? -chiese. -Oh, questo qui, un vecchio quadro, è tanto che non mettiamo in ordine, -disse l’uomo grasso, e si mise ad armeggiare come volesse nasconderlo, ma nello stesso tempo spolverarlo e conservarlo intatto.
-Io non capisco, -disse Tom, quasi parlando per conto suo, -eppure, qualche mese fa ci avete accolto così bene, in questo paese…Le tagliatelle… il ballo… i fiori… Non vi ricordate?-Mah… Noi non eravamo in paese, allora… -disse l’uomo. -Le tagliatelle, però, -non poté trattenere dal saltar su una delle donne baffute, -erano della nostra farina! Trenta sacchi… -ma s’interruppe, perché il marito le faceva gli occhiacci. Tom ricordava le parole di Fulmine. -Ma allora, -chiese, -quelli di allora, i nostri amici, dove sono…?-Mah… -disse l’uomo grasso, -non so… molte famiglie si sono…trasferite, in questi ultimi tempi… Giovanotto, andate al municipio, presentatevi al podestà, lì potranno assistervi…”Al podestà? Gli sparo tutto un caricatore nello stomaco, al vostro podestà!” voleva dire Tom, ma si sentiva mancare, e l’uomo grasso lo stava spingendo, pur quasi senza toccarlo, fuori della porta. -D’un medico, ho bisogno… Sono ferito…-Sì, sì, il medico, -diceva l’uomo grasso, -lo troverete in piazza, è sempre lì a quest’ora… -e intanto l’aveva spinto sulla scala, egli aveva chiuso la porta alle spalle. Tom si ritrovò in strada. C’era un po’”di gente, adesso, che discuteva sottovoce, in crocchi, e si scostava vedendolo passare e sfuggiva il suo sguardo. Vide un prete lungo, allampanato, con un colorito bianco avorio, che parlava con una donna bassottina e spettinata, e, gli parve, indicavano col dito lui, Tom. A Tom, che avanzava sempre più a fatica, zoppicando, pareva di rivedere sempre le stesse facce che aveva sorpassato prima; e quel prete dal viso d’avorio appariva e spariva, discutendo sottovoce in ogni crocchio. Tom s’accorse che a poco a poco l’atteggiamento di quei paesani verso di lui stava cambiando, lo guardavano con occhio interessato, con certi melliflui sorrisi, finché quella donna bassottina che aveva parlato col prete non gli trotterellò vicino e gli disse:-Povero ragazzo, non ti reggi in piedi, vieni con me. Era una donnetta con la faccia di faina; dal registro che aveva in mano e dall’impolveratura di gesso sparsa su di un vestito nero che pareva una divisa riadattata, si sarebbe detta una maestra. -Sei venuto a presentarti? Bravo! -diceva la maestra, e cercava, come per alleviarlo da un peso, di sfilargli il fucile dalla spalla. Ma Tom teneva la mano stretta alla cinghia e si fermò. -Cosa? Presentarmi? E a chi?
La maestra gli aveva aperto la porta d’un’aula. I banchi erano ammonticchiati in un angolo, ma c’erano ancora, appesi alle pareti, cartelloni con scene della storia romana, trionfi di imperatori, e carte geografiche della Libia e dell’Abissinia. -Siediti qui, a scuola, e ti portiamo subito una minestrina, -diceva la maestra, e faceva per chiuderlo dentro. Tom la spinse via. -Un medico, -disse. -Ora devo andare dal medico -. Tra la gente della piazza c’era un ometto nerovestito con una gran croce rossa su una fascia bianca attorno al braccio. -Lei è il dottore, vero? -disse Tom. -Vengo da lei un momento! L’ometto spalancò una bocca sdentata, guardandosi intorno come incerto. Ma quelli che gli erano vicino lo sospinsero, lo consigliarono sottovoce ed il medico avanzò verso Tom, indicò la croce rossa sul braccio, disse: -Io sono neutrale, non conosco né gli uni né gli altri, faccio il mio dovere. -Ma sì, ma sì, -disse Tom, -che me ne importa? -e lo seguì verso una casa lì sulla piazza. La gente teneva loro dietro a una certa distanza, finché non si fece largo tra loro un tipo dall’aria autorevole e nervosa, coi calzoni alla zuava, che faceva segno di lasciare che pensasse lui a tutto. Tom seguì il medico in uno studio semibuio e puzzolente d’acido fenico. Garza sporca, siringhe, bacinelle, stetoscopi erano sparsi intorno in gran disordine. Il dottore aperse le persiane ed un gatto saltò via dal lettino clinico.- Qui, stendi la gamba qui, -diceva il medico, soffiando un alito da avvinazzato. Tom si ficcò i denti nelle labbra per non gridare,mentre l’ometto, con mani tremolanti e sgraziate, gli incideva la gamba. -Una bella infezione, -diceva, -una bella infezione -. A Tom pareva che non finisse mai. Ora aveva preso a svolgere un rotolo di garza, ma s’imbrogliava e invece di fasciargli la gamba faceva girare quella garza dappertutto, anche intorno al lettino, alle braccia di Tom, finché lui non gli strappò tutto di mano, gridando: -Ma lei è ubriaco! Faccio io! -e in quattro e quattr’otto si fece una fasciatura perfetta, ben aderente, lungo tutta la coscia. -Presto, delle pastiglie febbrifughe, -disse, e poiché il medico cincischiava nella confusione dei campioni di medicinali sparsi dappertutto, ci mise le mani lui, lesse il nome di un tubetto, ne trasse due pastiglie, le inghiottì, intascò il tubetto. -Grazie di tutto, -disse, riprese il fucile, e uscì. Ma gli girava la testa. Sulla soglia sarebbe caduto se non ci fosse stato ad aspettarlo lì quell’uomo coi calzoni alla zuava che lo sorresse. -Ma tu devi ristorarti, riposarti… Devi essere sfinito… -diceva. -Vieni, vieni a casa mia… -E indicava, oltre
un cancello di ferro, una costruzione mezzo villa e mezzo casa colonica. Tom, con la vista annebbiata, lo seguì. Il cancello, appena entrati, si chiuse di scatto. Nonostante la forma antiquata, aveva una serratura di sicurezza. In quel momento, dal campanile cominciarono a cadere dei rintocchi, in una successione ritmata, sempre uguale, lenta come suonasse a morto, ma scandita come un messaggio telegrafico. “Come un messaggio…”pensò Tom, concentrandosi su quel suono per non lasciarsi venir meno. -Cos’è? -chiese all’uomo coi calzoni alla zuava. -Perché suonano le campane a questo modo? E a quest’ora?-Niente, niente, -rispose quello. -È il pievano. Ci sarà una funzione, credo. L’aveva fatto entrare in una specie di salotto buono, con poltrone e sofà. Sul tavolo c’era preparato un vassoio con bottiglia e bicchierini.- Assaggia questo rosolio! -disse, e prima che Tom avesse potuto protestare che di ben altro aveva bisogno, gli aveva fatto trangugiare un bicchierino. -Ora vado a ordinare il pranzo, con permesso, -e uscì. Tom si lasciò andare sul sofà. La testa gli ciondolava seguendo quel batteredi campane: “Don dan din! Don dan dan!” e si sentiva calare giù in un sonno molle e senza fondo. Fissava una macchia nera sul ripiano del buffè di fronte a lui, e la macchia nera si dilatava, perdeva i contorni, e Tom per lottare contro il sonno cercava di mettere bene a fuoco col suo sguardo quella macchia, ecco che riprendeva concretezza e dimensioni normali, era un oggetto basso e tondo, ecco che se ancora teneva alzate le palpebre sarebbe riuscito a discernere cos’era: un copricapo, era, tondo e nero, con una lucida frangia di fili di seta che gli pioveva dal cocuzzolo: un fez da gerarca, conservato sotto una campana di vetro sul buffè. Ora Tom era riuscito ad alzarsi dal divano. In quel momento l’aria gli portava come un lontano ronzio. Tese l’orecchio. Da qualche parte doveva passare un autocarro. Un autocarro o più d’uno, con un rombo che s’avvicinava di secondo in secondo. Tom cercava con tutte le forze di vincere il torpore che l’aveva invaso. Al segnale della campana pareva rispondere quel rombo di motore che già faceva tintinnare leggermente i vetri. E la campana, finalmente, tacque. Tom andò alla finestra, scostò una tendina. La finestra dava inun cortile acciottolato, dove lavorava un cordaio coi suoi garzoni. Tom non riusciva a vederli in faccia; parevano tipi anziani, duri,con spessi baffi neri. Silenziosi, muovendosi in fretta, tendevano e arrotolavano una gran treccia di canapa, per farne una fune. Tom si voltò, s’afferrò alla maniglia della porta. Cedeva.
Nell’androne si trovò di fronte a tre porte chiuse. Due erano chiuse a chiave, la terza era un basso usciolo che s’aperse su una scala di mattoni, buia. Tom scese e si trovò in una larga stalla vuota. Alle mangiatoie, vecchio fieno. Tutt’intorno, inferriate. Non si vedeva via d’uscita. Il rombo dei motori ingigantiva, era forse un’intera autocolonna che saliva in una spessa nuvola di polvere su per i tornanti della strada verso il paese. E lui era in trappola. Ed ecco Tom sentì una vocetta che lo chiamava: -Partigiano! dì, partigiano! -e da un mucchio di fieno venne fuori una bambina con le trecce. Aveva in mano una mela rossa. -Tieni, -disse, -mordila e vieni con me, -e gli indicò dietro il mucchio di fieno una breccia nel muro. Uscirono in un campo incolto pieno di gialli fiori selvatici stellati. Erano dietro il paese. Sopra di loro s’alzavano le mura diroccate dell’antico castello. Si sentiva il rumore degli autocarri che dovevano essere già all’ultima svolta. -M’hanno mandato a insegnarti la strada per scappare, -disse la bambina. -Chi? -fece Tom mordendo la mela, ma era già sicuro che di quella bambina poteva fidarsi a occhi chiusi. -Tutti. Tutti noi che non possiamo farci vedere in paese e stiamo nascosti. Se no ci fanno la spia. Io ho due fratelli partigiani, sai, -aggiunse, -conosci Tarzan? Conosci Bufera?-Sì, -disse Tom. “Ogni paese, -pensò, -anche quello che pare più ostile e disumano, ha due volti; a un certo punto finisci per scoprire quello buono, che c’era sempre stato, solo che tu non lo vedevi e non sapevi sperare”. -Vedi questo sentiero tra le vigne? Scendi pure di là, non è in vista. Poi passa quel ponticello, più presto che puoi, sta attento, è allo scoperto. Entra nel bosco. Sotto la quercia grossa c’è una caverna con dentro tanta roba da mangiare. Stanotte passerà una ragazza che si chiama Susanna: fa la staffetta e ti condurrà dai compagni. Va, partigiano, va, fa in fretta! Tom ora scendeva tra le vigne, e non sentiva quasi più il dolore alla gamba, e oltre il ponticello si stendeva il bosco fitto, oscuro, d’un verde nero, che i raggi del sole non riuscivano ad attraversare. E più forte si sentiva il rombo dei motori nel paese più fitto e oscuro gli sembrava il bosco. “Se riesco a buttare il torsolo della mela nel torrente, sono in salvo”, pensò Tom. La bambina con le trecce, su dal campo incolto, vide Tom che traversava il ponticello, nascosto dietro il muretto, e poi il torsolo cadere in un limpido laghetto del torrente alzando spruzzi sulle canne.
Batté le mani e se ne andò.