Dopo aver letto il pamphlet “ La politica e la lingua inglese” di George Orwell, nella traduzione per Garzanti di Massimo Birattari e Bianca Bernardi, molti, troppi sarebbero i passaggi da voler citare (rischiando così, nell’enfasi citazionista, di disarticolare la tesi che anima lo scritto), e molte sono di fatto le domande e le riflessioni suscitate dalla lettura di questo breve saggio dell’autore di 1984. Sintetizzando in maniera brutale: se il pensiero influenza il linguaggio, il linguaggio adottato da un popolo influenza il suo pensiero, e quindi la sua anima, le sue aspirazioni, le sue idee. Un’influenza “circolare” difficile da costruire – il limite temporale immaginato da Orwell per il completamento del “passaggio” era, e forse è ancora, il 2050! – e altrettanto difficile da scardinare, se non attraverso consistenti traumi storici e culturali. Da qui, per invertire il trend negativo, l’esigenza pratica di nutrire il linguaggio, e quindi il pensiero, con letture che arricchiscano il proprio “paniere idiomatico”. Senza dare la colpa alle “condizioni sociali presenti”.
Se nell’appendice a 1984 – I principi della neolingua – compare tra i primi obiettivi il conseguimento di una semplificazione del lessico che rasenta l’umorismo (le parole inventate da Orwell per il “Dizionario di neolingua” sono ridicole e fanno ridere perché lontanissime dalle nostre consolidate abitudini linguistiche: sbuono, sessoreato, nutriprolet, sbuio… Integrare un’intera lingua in pochi termini) allo scopo di bloccare sul nascere lo sviluppo del pensiero per mancanza di “materia” con cui elaborarlo e ampliarlo, nel nostro tempo presente con il cosiddetto “politichese” (volendo restare nell’ambito politico-ideologico) si vuole raggiungere lo stesso obiettivo distopico ma con un linguaggio non più “asciugato” dalle direttive di un partito dittatoriale come nel romanzo di Orwell, bensì reso disarticolato da una vacua complessità: in questo caso il pensiero viene letteralmente “affogato” non già dalla mancanza di lessico ma dal suo disordinato eccesso. E Orwell riporta dalla sua epoca, con tanto di riferimenti, ben 5 autorevoli esempi di “cattiva lingua” utilizzata in pubblico e per il pubblico.
La prosa moderna si allontana dalla concretezza: ha eliminato i verbi semplici, abusa di cliché e di formule vuote per “stordire” l’interlocutore. Ma oggi, in paesi liberi come l’Italia, a chi conviene, lì dove sono assenti palesi dittature, mantenere e alimentare un linguaggio che allontana la popolazione dalla realtà delle cose? Oserei dire, anche se non riportato nel pamphlet di Orwell, che conviene alla finanza, alla macchina consumistica in cui siamo coinvolti. Non c’è un chiaro pericolo Socing – come nel romanzo 1984 –: la politica (persino quella dittatoriale, divenuta anacronistica e poco “comoda”) si è ormai da decenni consegnata mani e piedi ai meno evidenti e più proficui meccanismi della finanza mondiale che tutto condiziona e influenza. Perché affannarsi a ottenere il controllo di un popolo con la violenza o addirittura con l’invenzione di una neolingua che ne renda rachitico il pensiero, quando si può ottenere lo stesso risultato confondendo il linguaggio e “anestetizzando” quel popolo con discorsi vacui e insinceri? Perché imporre l’onnipresenza di un Grande Fratello quando siamo noi stessi che – pur conservando intatto il nostro vocabolario – ci consegniamo spontaneamente al controllo del “Grande Fratello Social“?
La lingua non è solo uno strumento estetico-comunicativo: con essa “modelliamo la materia”, trasformiamo la realtà, condizioniamo il pensiero che alimenterà la futura azione concreta… Non è solo suono. La lingua
“diventa brutta e imprecisa perché i nostri pensieri sono stupidi, ma a sua volta la sciatteria della lingua ci rende più facili i pensieri stupidi […] pensare con chiarezza è il primo passo necessario verso una rigenerazione politica: così la lotta alla cattiva lingua non è un vezzo e non riguarda solo gli scrittori di professione”.
Se con la neolingua di 1984 l’essere diretti, semplici, sintetici, brevi, è premessa al controllo delle menti, nella nostra realtà il controllo (o la dissimulazione delle reali intenzioni) avviene attraverso una complessità linguistica che nasconde una povertà esistenziale e una mancanza di senso: fine comune di queste due realtà, quella distopico-fantascientifica di Orwell e la nostra, è la progressiva degradazione del linguaggio attraverso, ma non solo, la sostituzione di termini sconvenienti con equivalenti più morbidi ovvero la diluizione della verità “in lunghi brani quasi completamente privi di senso”, facendo un uso disonesto delle parole. “La lingua degradata che degrada il pensiero…” scrive Birattari in prefazione, “la lingua che diventa strumento di uno stato totalitario”. E sono costretto a rifarmi la domanda: oggi, questa lingua degradata, dal momento che viviamo una condizione apparentemente democratica dal punto di vista politico-ideologico, quale tipo di totalitarismo asseconderebbe?”.
Orwell è ottimista (forse perché non ha assistito alla “deriva social” della politica… con leader ultraottantenni emigrati su Tik Tok nel patetico tentativo di accalappiare giovani elettori molto più svegli di loro!), crede nella reversibilità del processo e propone una serie di domande che un qualsiasi scrivente dovrebbe porre a se stesso prima di digitare frasi sulla tastiera: una sorta di “esame di coscienza” per evitare di abbandonarsi alle mostruosità della scrittura automatica e avere finalmente una piena consapevolezza di ciò che s’intende trasmettere attraverso la prosa, al di là della “linea del partito” o di frasi dettate da un’incontrollata emotività collettiva che blatera ventiquattr’ore su ventiquattro di “aggressori e aggrediti” senza avere la benché minima idea della storia del territorio che difendono “oralmente”; o anestetizzando le coscienze annunciando “operazioni militari speciali” o improbabili “denazificazioni” di territori anziché parlare semplicemente di ‘guerra’. Tante, troppe, le “mode linguistiche” da citare e fedeli a un certo conformismo politico.
Ad agevolare questa degradazione intervengono, secondo me, due fenomeni abbastanza diffusi: l’analfabetismo funzionale, perché lì dove non vi è comprensione del significato, è più facile attuare una “sostituzione” del significante o addirittura un annullamento di senso con progressivo avanzamento del vuoto lessicale e mentale (vedi la riduzione di volume, anno dopo anno, del Dizionario di neolingua); e la moda della cosiddetta “cancel culture” che, in nome di un deleterio ed esasperante atteggiamento politically correct, degrada il pensiero critico equilibrato, e di conseguenza il linguaggio cosciente, abbattendo simboli e possibilità di confronto con realtà storiche scomode ma reali. La “cancel culture” non compie un lavoro dissimile da quello dei redattori del Dizionario di neolingua descritti nel 1984 di Orwell. Infatti scrive: “Visto che non si sa che cos’è il fascismo, come è possibile combattere contro il fascismo?”. Aggiungo io: visto che si abbattono le statue dei protagonisti del colonialismo e dello schiavismo che ne conseguì, come si potrà in futuro parlare di decolonizzazione, ad esempio, del Commonwealth? Assisteremo a concetti sospesi nel vuoto, senza basi storiche anche simboliche perché censurate o cancellate dalla stupidità di una minoranza.
Le dittature future non si presenteranno con la divisa sporca di sangue, ma animate dalle più benevole e democratiche intenzioni. Aderire ai loro programmi ad alcuni sembrerà naturale. Nutrire il linguaggio sarà il nostro “vaccino”.