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SCRIPTA MANENT

SCRIPTA MANENT

LETTURE SENZA CONFINI


“ E LE MIE IMMAGINI URLARONO “. SULLA POETICA DI DYLAN THOMAS

Publié le 12 Octobre 2022, 10:26am

Catégories : #Autori sotto la Lente

Se dobbiamo spendere due parole a proposito di questo immenso poeta, che fin dalla prima giovinezza fu tale da suscitare scalpore negli ambienti della English-language literature, dovremmo farlo a partire dalla rottura che operò con qualsiasi cosa si fosse mai vista nella tradizione poetica classica e anche più recente: il suo stile icastico, vicino è stato detto alla settima arte, nel suo avvicendarsi e sovrapporsi di immagini, era capace di versatilità e potenza evocativa inimitabili. In esso ricorrono anafore e analogie originalissime, lemmi neologistici, il gusto per il suono della parola, musica essa stessa, e torsioni funamboliche del linguaggio, così classico da recuperare William Blake e John Donne, soprattutto a livello tematico, e così neoterico da sconvolgere i suoi coevi – poeti e non.

Spiccava, in Thomas, uno spirito fortemente dionisiaco, ed è stato detto che fosse definibile come neoromantico, che nella sua poetica fossero assenti temi sociali o politici; noi diremo che la dimensione politica dell’esistenza inerisce sempre la sfera del desiderio e in quanto tale, del definirsi delle identità, e di questi nessi egli è un cantore unico. È stato anche più volte sottolineato che in lui vi fosse una vena di panteismo, ma vorremmo dire che sarebbe più appropriato dire panpsichismo. Certamente la natura e la sua voce, la sua voce plurima o per esattezza la voce dei suoi enti, anche nel loro confliggere, hanno un ruolo centrale nella poetica del bardo gallese; assieme all’amore cantato visceralmente e inscindibile dall’impulso sessuale, che recuperando Freud è impulso sì di vita ma anche di morte.

Si faccia un parallelo, a questo proposito, tra alcuni dei motivi delle sue poesie e il saggio di Freud, Al di là del principio del piacere (1920). Non  in relazione alla scelta freudiana di porre come fine essenziale di ogni organismo vivente la morte – giustificando così coazione a ripetere e istinti sessuali fuori del Principio del piacere –, scelta omogenea a quella topica di rintracciare la controparte fisiologica alle pulsioni nella cessazione della scarica indotta dagli stimoli – cessazione che è stato di quiete vicino a una sorta di Nirvana biologico –, ma in relazione piuttosto al riconoscere l’atto sessuale come Agape e istinto vitale per eccellenza, attestazione che in Thomas trova una centralità veritativa e dagli esiti sorprendenti.  

Egli era tanto dissoluto e dissipatore di sé, anche nel senso di un traboccare nietzschiano, nella vita – emblematica è la sua dipendenza dall’alcol – quanto viscerale e vitalistico nella propria poetica. In essa le immagini si accavallano e potenziano vicendevolmente attraverso quello che egli stesso chiamò metodo dialettico e che ricorda da vicino l’immagine bergsoniana dei fuochi d’artificio… Costruire e distruggere, esattamente come in natura, i contenuti, le metafore e le allegorie, affermarle per negarle e far emergere la loro identica autenticità attraverso ciò che è a esse anche contrastivo… Dice il poeta:

Ciascuna immagine contiene in sé il germe della propria distruzione, e il mio metodo dialettico, così come io lo intendo, è un costante ergersi e crollare delle immagini che si sprigionano dal germe centrale, che è esso stesso distruttivo e costruttivo allo stesso tempo… Dall’inevitabile conflitto delle immagini cerco di concludere quella pace momentanea che è la poesia”.

Se la ripetizione, come nel filosofo francese Gilles Deleuze, è eminentemente il regno del ripetersi dell’uguale, Dylan Thomas la aggira anche quando procede per iterazione: nella sua poetica, fucinante simboli e caleidoscopiche visioni, il regno creato è già di per sé una natura naturans che ripete il proprio identico nelle più variate forme e manifestazioni. Sia come grande madre dell’esistente sia come vicenda dell’umano essa è una forma immensamente affermatrice, tale da portare nel suo cubitale bacino di elementi in incessante poiesi e mutamento, un magma di componenti in lotta tra loro, o avvinte l’una all’altra in una copula creativa il cui amplesso è ganglio o epitome dell’universo stesso. Thomas sapeva farsi “fabbro titanico” di un linguaggio poetico che forgiava la parola per farla fedele a tutto ciò.

V’è qualcosa di biblico, certo, in Thomas. Egli era a suo modo un credente ma aveva in odio la mortifica morale puritana soprattutto in relazione all’amore carnale o alla concezione incolore ed esangue di famiglia borghese con tutta la propria tartuferia morale. Altro tema cardine è la fanciullezza come Eden originario e non corrotto, che, nel quadro energetico-vitalistico di cui parlavamo, è al centro di una realtà non inibitiva e sorella della possanza creatrice della natura stessa.

Potremmo attingere a ben altri paradigmi della sua poesia, ma ci piace prendere in esame, a titolo di riscontro presso quanto detto, la sua celeberrima poesia giovanile And death shall have no dominion (presente nella prima raccolta del 1934, 18 Poems). Qui è già presente tutto l’estro visionario di questo grande e seminale poeta, e si concreta attraverso immagini crude e corrusche che divengono emblemi di forza e propulsione vitale, rinascita e sensuosa reviviscenza; tutti elementi non tali da nullificare la morte come limine estremo di ogni vita, ma certo capaci di detronizzarla dal suo ruolo di crudele regnante e elargitrice di oblio senza revoca. In questo contesto ci si può ricondurre sia al discorso di Heidegger a proposito del vivere-per-la-morte; sia a quello di Kierkegaard sull’angoscia quale “vertigine della libertà” (dispersiva e disorientante proliferazione del possibile) e sulla morte non come limite fisico ma in quanto pensiero di morte: incunabolo di accesso al divino. In entrambe i casi la vita non è la sola forza creatrice (lo è anche la sua controparte) e anzi non è davvero vita, ma inganno, se non ricomprende a sé Thanatos.

La morte non vince sugli amanti – e qui l’amante, forse, platonicamente, reca in sé un’abbondanza di divino che non reca l’oggetto stesso del suo amore –, può essere l’ultima parola sulle loro vite materiali ma non sul loro amore e sul suo eterno ritorno. Ciò che qui sopravvive dei “nudi morti” sono stelle ai loro gomiti e ai loro piedi, un inno di catarsi e libertà, inno di identità che non cessano, voce di un soffio vitale che rigenera, ricuce strappi, sana la follia.

La poesia di Thomas raggiunge vette vertiginose, si avvale di una forza plastica in continuo mutamento, aderisce a immagini altrimenti inesprimibili, non perché il linguaggio poetico può imbattersi nella miseria della poesia (cosa ben possibile a giudizio di Thomas stesso: “… non giaccia la poesia in una scatola larga, soffocante e igienicamente dubbia… Senza viscere e senz’anima…”) ma perché l’ars combinatoria dei suoi elementi è qui la mano felice che, aggirando i limiti di formulazioni verbali che procedono sui binari del consueto, diviene il Kairos attraverso cui si rivela la possibilità di trascendere le tappe e i passaggi ordinari della parola per condurre da un elemento all’altro di una costruzione di significato saltando gli elementi intermedi deputati a necessari dal Lògos (pensiero e parola qui coincidono esorbitando però dal contesto della Ragione e delle sue leggi discorsive).

Thomas muore a New York il nove novembre 1953 a soli trentanove anni e lascia un’eredità incancellabile e luminosa che resterà un esempio unico di forza creativa e virtuosismo poetico.

*

Io, nella mia immagine intricata

I.

Io, nella mia immagine intricata, avanzo su due piani,
Modellato con minerali d’uomo, oratore d’ottone,
Costringo il mio spettro nel metallo,
Mi bilancio sui due piatti di questo mondo gemello,
Il mio mezzo spettro in armatura tengo saldo nel corridoio della morte,
Al mio uomo di ferro mi avvicino di sghembo.

Iniziando con la condanna nel bulbo, la primavera svolge i fili,
Raggiante come i suoi arcolai, stagione degli spasmi
Ricamata su un mondo di petali;
Infila linfa ed aghi, annoda sangue e bollicine
Alle radici del pino, suscita l’uomo come un monte
Dalle viscere nude.

Iniziando con la condanna nello spettro, nelle nascenti meraviglie,
Immagine di immagini, mio fantasma di metallo
Che urge attraverso il convolvolo.
Mio uomo di foglie e radice di bronzo, mortale, immortale,
Io, fusione di rosa e maschio impeto,
Creo questo miracolo gemello.

Questa è la sorte della maturità, il naturale pericolo,
Una torre da conciatetti, recinta d’osso e senza padrone,
Non c’è morte più naturale;
Cosi l’uomo senz’ombra o il bove, e il diavolo dipinto,
In un accesso di silenzio arrecano il danno mortale:
Il naturale parallelo.

Le mie immagini incedono negli alberi e nell’obliqua galleria della linfa,
Non c’è andatura più rischiosa, i verdi gradini e la guglia
Salgono sul rumore dei passi dell’uomo.
Io con l’insetto del legno nella pianta d’ortica,
Nel letto vitreo dell’uva con la chiocciola e il fiore,
Ascoltando il cadere del tempo.

Intricata maturità della fine, i due avversari invalidi,
Diretti in senso orario fuori del porto simboleggiato,
Ritrovando la conclusione d’acqua,
Sul terrazzo dei tisici prendendo il duplice commiato,
Salpano fianco a fianco, avventura di chi parte,
Verso l’arrivo soffiato dal mare.

II.

S’inerpicano sul pinnacolo dei campi,
Dodici venti scontrano presso la bianca schiera che pascola,
In un recinto sul colle accantonano i prati cavalcati,
Vedono lo scoiattolo inciampare,
La lepreggiante lumaca correre pazza attorno al fiore,
Un litigio di alberi e stagioni nella spirale ventosa.

Non appena si tuffano, la polvere precipita,
Ghiaietta cadaverica, si deposita densa e regolare,
La grande strada d’acqua dove la foca e lo sgombro
Girano la lunga arteria marina
Girando al nemico un volto cieco di benzina
Girando il morto senza cavaliere accanto al muro del canale.

(Morte strumentale,
Che spacchi il lungo occhio, e il carceriere elicoidale,
La tomba a chiocciola accentrata in capezzolo e ombelico,
Il collo della narice,
Sotto la maschera e l’etere, mentre fanno sanguinare
La bacinella dei bisturi, il funerale antisettico;

Fa uscire la nera pattuglia,
I tuoi mostruosi ufficiali e l’armata in sfacelo,
II becchino di guardia, di guarnigione sotto i cardi,
Un gallo su un letamaio
Che annunci a Lazzaro la vanità del mattino,
Polvere sia la tua salvezza sotto la terra scongiurata).

Non appena essi annegano, lo scampanio si propaga,
Dal campanile di spruzzi la campana del palombaro
Suona a distesa la scala musicale del Mar Morto;
E, sbattuti in acqua finché il tritone non ciondoli,
Impiccato con alghe di balena, dalla zattera del boia,
Odono i frangenti di vetro salato e le lingue della sepoltura.

(Volgi il perno marino da un lato,
La terra incisa rotante, affinché la puntina del fulmine
Abbagli questa facciata di voci sul piatto girato dalla luna,
Lascia che il disco di cera balbetti,
Reliquia raschiante, le infamie e i molli disonori.
Questi, i registratori dei tuoi anni. Il mondo circolare non si muove).

III.

Essi sopportano l’acqua non morta dove abbocca la testuggine,
Vengono alle torri confitte nel mare, alla fibra che si squama,
Al rapido passaggio del cranio di carne
E al ditale percorso dalle cellule;
Sopportate, o miei sottosopra, che un angelo doppio
Germogli dai forzieri di pietra come un albero ad Aran.

Siate trafitti dal vostro unico fantasma, dal suo aguzzo puntale,
Ottone e immagine incorporea, su uno scettro da buffone
Fissi alla stella nell’angolo di Giacobbe,
Colle di fumo e valle dell’oppiomane,
E Amleto immerso cinque braccia sopra il corallo di suo padre,
Spingendo sul miglio di ferro la vista pollicina.

Sopportate la vista sfregiata dalla stoppia verde-pinna,
Siate infranti dal mare delle navi ancorati ad una corda d’uomo
Viaggio verso il fondo d’ossa tenute in caldo
Nel naufragio del muscolo;
Lasciate, amanti, la stretta, e la lotta di cera vischiosa,
Amate come nebbia o come fuoco nel letto d’anguille.

E nelle pinze del cerchio bollente,
Mare e strumento, catturato nei serrami del tempo,
Ferro del mio gran sangue unico
Nella città colante,
Io, in un vento di fiamma, dalla culla del verde Adamo,
Nessun uomo più magico, attanagliai il coccodrillo.

L’uomo fu squame, uccelli di morte su smalto,
Coda, Nilo, e muso, sellaio dei giunchi,
Tempo nelle case senza ore
Che scuotono il teschio covato dal mare,
E, quanto ad oli e unguenti sul volante graal,
L’uomo svuotato di tutto pianse per i suoi bianchi paramenti,

Mascheratore del Cadavere fu l’uomo, manto imbrigliante,
Suo verboso maestro fu il putrido scandaglio,
Il mio spettro nel suo nettuno metallico
Modellato con minerale d’uomo.
Questo fu il dio del principio nell’intricato vortice marino,
E le mie immagini urlarono e risorsero sulla collina del cielo.

Dylan Thomas

Traduzione di Ariodante Marianni

Fonte: https://www.pangea.news/dylan-thomas-poetica-triolo/

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