La verità è nelle parole con le quali può essere detta e con le quali è stata scritta. La verità è dare informazioni esatte. Il potere, chi lo rivendica per sé per il più tremendo dei fini, il presunto fin-di-bene, è del parere che la verità non sia per tutti. Che sia prerogativa degli addetti ai lavori. Che esistano verità che debbano essere secretate perché come secondo il Colonnello Jessep in Codice d’onore (1992, Rob Reiner): non tutti possiamo reggere la verità. C’è però chi è dell’idea che la verità sia fatta per essere detta, che una verità ristretta diventi sempre meno una verità, decadendo a mezzo di dominio, strumento di autogiustificazione, passpartout per rendere impuniti sé stessi e punire coloro che verranno condannati a loro insaputa perché tenuti all’oscuro della verità che gli sarà stata costruita addesso. Stefania Maurizi con Il potere segreto – Perché vogliono distruggere Julian Assange e Wikileaks (Chiarelettere) ricostruisce il modo esatto e mostruoso con cui si sta provando a vendicarsi e a demolire chi ha aperto una breccia nel perverso concetto di verità condizionata, di Verità di Stato. Perché chi segue la lezione di Wilde probabilmente finirà a processo con Kafka, ma solo se verrà lasciato solo. (Antonio Coda)
Il potere segreto è un libro sulla minaccia al diritto e alla libertà di espressione. Qual è il limite, se ne esiste uno, di questo diritto e di questa libertà?
Il limite è la verità. Ciò che viene raccontato deve essere vero, verificato rigorosamente. E deve essere di pubblico interesse. Quando il giornalista Fabrizio Gatti si fece ripescare in mare per entrare nelle strutture di accoglienza dei migranti e dei rifugiati a Lampedusa, per scrivere la sua famosa inchiesta nel 2005, commise un reato. Essendo sotto copertura diede false generalità. Un reato punibile con una pena detentiva fino a cinque anni. In sede di processo il giudice riconobbe però che il bene pubblico superiore giustificava il suo comportamento e Gatti non fu mai condannato. Alla collettività deve essere garantita la conoscenza dei fatti gravi che avvengono a sua insaputa. Julian Assange, per il lavoro fatto con Wikileaks, per aver rivelato fatti di eccezionale importanza pubblica, e mi riferisco ai crimini di guerra commessi in Afghanistan, in Iraq, ai reati di tortura commessi a Guantanamo, è stato invece incriminato con una legge americana del 1917, l’Espionage Act, mai usata prima con successo contro i giornalisti, che non ammette il pubblico interesse. Ammesso sia stato commesso un reato informando la collettività dei crimini di guerra commessi dal suo Stato, per i giornalisti e per l’opinione pubblica questa incriminazione è devastante: se non si ammette l’interesse pubblico di fatto non è possibile fare giornalismo.
Scrive Coetzee in Diario di un anno difficile, l’anno è tra il 2005 e il 2006: “George W. Bush […] va ancora più in là, fino a sostenere di non poter commettere un crimine, poiché è lui stesso a fare le leggi che definiscono i crimini”.
Stando agli Stati Uniti: le loro leggi non consentono la tortura né di commettere crimini di guerra. Esistono le leggi internazionali che valgono per tutti e che non a caso sono state codificate dopo un secolo di brutalità senza precedenti. E comunque, anche laddove le leggi internazionali non abbiano il potere di punirle questo non rende giustificabili le condotte criminali, e non cancella il fatto che ci sia un enorme interesse pubblico nella loro rivelazione. Quando non ci sono leggi che sanzionino è ancora più importante il lavoro dei giornalisti che denunciano lo stato delle cose e rendono possibile una ricostruzione delle responsabilità. Ci troviamo di fronte a Stati che scatenano guerre devastanti, che torturano intere popolazioni, per questo vanno assolutamente osservati, occorre un controllo aggressivo che può essere esercitato solo da parte di una stampa indipendente.
Il libro occupa una posizione immediatamente scomoda anche per il contesto storico in cui siamo. L’obiezione più facile sarebbe: d’accordo criticare gli Stati Uniti ma esistono Stati ben più feroci e pericolosi.
Esistono situazioni estremamente peggiori, di giornalisti uccisi, che subiscono torture fisiche mostruose. Il punto del libro è che pur condannando, assolutamente, le altre forme brutali di persecuzione dei giornalisti, non si può non guardare anche a queste altre forme che possono sembrare meno brutali ma bisogna fare attenzione: come vogliamo definire la situazione di un giornalista che da dodici anni non conosce la libertà per aver rivelato crimini di guerra e tortura? Un uomo che è stato fatto crollare mentalmente con mezzi più presentabili, che fanno scattare meno allarme sociale. Certo è ancora vivo, ma il risultato è comunque un uomo distrutto.
Scrivi che Assange sia stato ispirato nel fondare WikiLeaks da una celebre frase di Oscar Wilde: “L’uomo tanto meno è sé stesso, quanto più parla in prima persona. Dategli una maschera dietro cui nascondersi e vi dirà la verità”. Può esistere una verità senza il volto di chi si assume la responsabilità di starla dicendo?
Il giornalista non è interessato all’identità di chi fornisce documentazione utile all’interesse pubblico, documentazione che va verificata, di cui può essere stabilità la veridicità. Julian Assange e i giornalisti di WikiLeaks o che hanno collaborato con WikiLeaks si sono occupati di questo, di assicurarsi dell’autenticità dei documenti condivisi, al cui interno non si trovano delle affermazioni generiche, illazioni. Sono documenti precisi che contengono fatti precisi e date precise. Il loro provenire da fonti anonime non mina la bontà del documento una volta che ne sia stata accertata la validità.
“Quel giorno dell’arresto, mentre veniva sollevato di peso e portato fuori, nonostante fosse ammanettato Assange teneva stretto fra le mani un libro. […] S’intitolava History of the Security State”. Il giorno dell’arresto Julian Assange sceglie di mostrare un libro, che automaticamente diventa un simbolo.
Sebbene molto piccolo e poco conosciuto, scelsi e regalai a Julian Assange e a molti altri giornalisti di WikiLeaks quel libro di Gore Vidal perché contiene l’intervista molto efficace fattagli da Paul Jay. Permette di entrare nei meccanismi grazie ai quali negli Stati Uniti è stato costruito l’enorme Stato della sicurezza nazionale, costituito dal Pentagono, dalle agenzie d’intelligence, che hanno lentamente svuotato dall’interno lo Stato propriamente detto. Un processo che si è accelerato soprattutto dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001. Uno Stato della sicurezza nazionale che non risponde di sé a nessuno perché quello che fa è coperto dal segreto. In poche pagine il grande intellettuale Gore Vidal riuscì a tratteggiare la nascita di questo Stato nello Stato. Mi colpì quell’undici aprile del 2019 che Assange, mentre veniva trascinato fuori dall’ambasciata in stato d’arresto, stringesse tra le mani proprio quel libro.
Paradosso riportato nel libro: fu una emittente russa a mostrare agli inglesi cosa stesse accadendo nel loro Paese.
Pochi giorni prima con un tweet Julian Assange aveva dato avviso del suo arresto imminente. Le televisioni inglesi presidiarono il posto per un giorno o due dopodiché sbaraccarono tutto, in linea con il tipico interesse dei media occidentali verso WikiLeaks. Lo scoop l’ha fatto il canale russo perché era l’unico a essere rimasto. La grande preoccupazione che desta l’atteggiamento superficiale dei media occidentali su questo caso, tranne alcune nobili eccezioni, è all’origine della motivazione che mi ha spinto a scrivere Il potere segreto. C’è stato bisogno di una giornalista italiana per andare a dare battaglia con il FOIA, il Freedom of Information Act, in Svezia, negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Australia, per cercare la verità, per cercare di capire come siano andate veramente le cose per esempio in merito ai procedimenti legali legati al caso svedese, alle accuse di stupro ad Assange. Sul caso WikiLeaks ho visto in azione il peggio della stampa occidentale.
WikiLeaks rappresenta “un processo di democratizzazione [che dà] potere ai lettori comuni” che comunque si trovano alla prese con dei cablo “scritti dai soldati americani, che riferivano in modo sintetico e in gergo militare, spesso stretto e zeppo di abbreviazioni, ogni evento significativo”. Perché i documenti forniti dalle fonti siano leggibili occorrono comunque degli intermediari, una sorta di traduttori che oppongano al potere segreto il potere delle parole.
Noi giornalisti abbiamo fatto un grosso lavoro sui documenti per renderli comprensibili da tutti, anche da chi non ha una formazione militare. Mettiamo: azione cinetica. È un’attacco, è una sparatoria, ci sono persone che muoiono. O KIA, che sta per killed in action, morto in azione. Nonostante il lavoro di chiarimento resta il fatto importante che questi documenti sono accessibili a tutti. Il lettore non è costretto a fare affidamento sui giornalisti, può leggerli lui stesso, può cercare di capire semmai come il giornalista ci ha lavorato, se li ha gonfiati, se viceversa li ha resi di basso profilo, se ha omesso qualcosa. Il lettore ha il potere, adesso può partecipare. Può recuperare le informazioni e venire a sapere per esempio quello che avveniva a Guantanamo o in Iraq. Sono documenti resi pubblici. Annullando l’asimmetria tra chi può e chi non può accedere alla fonti primarie il gioco è cambiato.
Scrivi in Il potere segreto: “C’è una famosa frase che sintetizza la funzione del giornalismo: se uno dice che fuori piove e un altro dice che fuori c’è il sole, il compito di un giornalista non è citare tutti e due, ma guardare fuori dalla finestra e scoprire cosa è vero”. Eppure libertà e verità sembra possano esistere solo una a discapito dell’altra.
Se vuoi essere libero devi essere disposto a pagare un prezzo, che per fortuna non è sempre così estremo come quello pagato da Julian Assange. Ti può costare in termini di carriera, di accesso a certe fonti, a certi contatti. Ad Assange è costato i migliori anni della sua vita, che mai nessuno gli potrà restituire, sempre ammesso che si salvi. Dodici anni di vita che non ha potuto vivere sono un prezzo inaccettabile. Un prezzo che non sta pagando in Corea del Nord o in Cina o in Russia, lo sta pagando in una democrazia. È scandaloso. Per questo le autorità americane e inglesi non vogliono che ci sia attenzione mediatica, per questo fanno di tutto perché non se ne parli.
Il potere segreto è anche la storia di un senso di lealtà da difendere fino alla fine.
È come se tu fossi uscito con un collega per andare a fare un reportage e il tuo collega fosse caduto in un pozzo o da una scogliera. Tu non è che prendi e scappi, tu gli tendi il braccio fino a quando non sei riuscito a riportarlo fuori dal pozzo, su dalla scogliera. Sento una grande responsabilità. Ho pubblicato esattamente gli stessi documenti di Assange per oltre un decennio e non ho mai dovuto subire il trattamento toccato a lui. Se il mio collega cade io non lo lascio andare, faccio di tutto, urlo se serve. Non posso tirarmi indietro se ha bisogno di aiuto. Alla solidarietà umana si accompagna a livello professionale il dovere di denunciare la mostruosità di quello che sta accadendo sotto gli occhi di tutti. Ricostruire i fatti rigorosamente è il mio dovere di giornalista, renderli pienamente visibili.
WikiLeaks ha la sua costola italiana, mi riferisco per esempio al caso del rapimento di Abu Omar. Scrivi nel libro: “Peggio dei crimini della Cia, c’era solo l’apatia pubblica italiana”. All’epoca corrente di massima sorveglianza tramite i mezzi digitali corrisponde massima apatia, passività?
L’immenso volume di informazioni che abbiamo a disposizione ogni giorno invece di renderci più vigili ci rende instupiditi e indifferenti. È un grave problema anche per le agenzie di intelligence, come la CIA e l’NSA, che letteralmente sommerse dai dati non vedono più le minacce, non riescono a riconoscerle e pertanto a impedirle, non riescono più a fare bene il loro lavoro.
“Il clima di sospetto […] ha contribuito a una campagna di demonizzazione di Assange e della sua organizzazione che, alla fine, li ha privati di ogni empatia da parte dell’opinione pubblica. Il veleno ha funzionato”. Dosi di apatia indotte, inoculate. E il sospetto è: far puntare l’attenzione su Assange serve a spostarla da quello che Assange e i giornalisti di WikiLeaks hanno portato allo scoperto?
Appena furono rivelati gli Afghan War Logs il 25 luglio del 2010 il dibattito pubblico fu subito spostato sul personaggio Assange: un irregolare, un irresponsabile, un mezzo matto che chissà cosa ha per la testa… Quattro settimane dopo finisce nell’indagine svedese per stupro e molestie sessuali e da quel momento in poi tutto il dibattito è su di lui: è uno stupratore? Vuole sfuggire alla giustizia? E tutte le cose rivelate da WikiLeaks passano in secondo piano. Un lavoro di manipolazione dell’opinione pubblica a cui si è agganciato il livello più sensazionalistico e pressapochista del giornalismo. In uno dei documenti pubblicati prima dei file sull’Afghanistan la CIA mette a fuoro delle tecniche di manipolazione dell’opinione pubblica, nel caso della Francia e della Germania, nel caso questi due Stati avessero voluto ritirare le truppe. Operazioni di influenza dell’opinione pubblica si fanno da sempre e le fanno tutti gli Stati. Il fatto che le democrazie occidentali oggi garantiscano delle libertà non significa che necessariamente sarà sempre così. In democrazia può accadere vengano elette persone profondamente sbagliate e pericolose, è già successo in passato, e con le tecnologie di sorveglianza digitale adesso a loro disposizione si corre il rischio di non potersene più liberare.
Assange e WikiLeaks hanno dimostrato che un altro modo di fare e diffondere informazione è possibile. La battaglia che gli ha mosso contro il potere segreto non rischia di essere, qualunque sia il suo esito, una guerra persa? O è pensabile che si possa tornare a un mondo pre-WikiLeaks?
La ragione per cui vogliono distruggere Assange e WikiLeaks è per intimidire chiunque altro dovesse anche solo pensare di prendere ispirazione del loro operato. Il messaggio è: “Avete visto che fine ha fatto quello lì, no?”. Potremmo non entrare mai in possesso del prossimo Collateral Murder, il video in cui è mostrato l’attacco aereo del 12 luglio 2007 a Baghdad in cui vengono uccisi dei civili disarmati. La prossima Chelsea Manning, il prossimo Snowden, sicuramente ci penseranno su dieci volte prima di condividere le informazioni sensibili a cui hanno avuto accesso. Se però mi chiedi se questo li fermerà, ebbene io penso di no, non li fermerà, per la stessa ragione per cui io ho investito così tanto nel mio lavoro. Io voglio che la rivoluzione in atto si capisca perché possa andare avanti, affinché l’opinione pubblica abbia consapevolezza di quanto sia importante, non solo per i giornalisti ma per la collettività tutta. Se l’opinione pubblica non ha la possibilità di conoscere verità non autorizzate, se si deve accontentare solo delle verità ufficiali, è manipolata, ha il guinzaglio corto, non può dirsi libera.
Il potere segreto contiene molte storie: di Julian Assange, Manning, Snowden, del libico Ibn al-Sheik al-Libi, quella di Ahmed Rabbani imprigionato a Guantanamo per uno scambio di persona: “Dal 2002 Rabbani ha conosciuto solo terrore, abusi e detenzione senza via d’uscita”. Scrivere di loro è un modo per sottrarli all’ingiustizia definitiva dell’indifferenza generale?
Sono vite distrutte, sono storie tragiche e brutali. Leggere i documenti è stato scioccante. Gli Stati Uniti, con il contributo anche del mio Paese, fanno davvero queste cose? Scioccante il grado di ferocia tante volte gratuita e la vasta scala in cui questi abusi vengono perpetrati.
Da Wilde a Kafka: “Era veramente grottesco che una potenza che, solo con la guerra in Iraq, aveva causato centinaia di migliaia di morti innocenti e 9,2 milioni di rifugiati, processasse un giornalista che non risulta abbia mai cagionato una sola morte e cercasse di seppellirlo per sempre in una prigione. Solo Franz Kafka e il suo Processo potevano aiutare a capire quanto fosse oltraggioso, allucinante e assurdo. Una mostruosa ingiustizia”. Chi sono i mostri e come fare a riconoscere la parte mostruosa che ciascuno si porta dentro?
I mostri sono alla luce del sole. Gli Stati Uniti e le potenze alleate hanno distrutto intere nazioni. Altrettanto individuabili sono coloro che hanno distrutto la vita di Julian Assange, parlo degli Stati Uniti, dell’Inghilterra, della Svezia, dell’Australia, che è il suo paese, parlo dell’Ecuador di Lenín Moreno che ha permesso a Scotland Yard di entrare nell’ambasciata e arrestarlo quando lui godeva di diritto d’asilo. L’opinione pubblica ha il dovere di trarre le conclusioni, di questo caso sappiamo tutto, le responsabilità sono evidenti. L’opinione pubblica deve mobilitarsi e sollevarsi contro il trattamento inumano e vergognoso inflitto a Julian Assange e se non lo fa sarà mostruosamente responsabile.
Mi colpisce che il punto debole del potere segreto sia quello che lascia scritto. Perché il potere ha bisogno di scrivere?
La parte scritta è il punto debole di tutti. Un sistema per funzionare ha bisogno delle comunicazioni. Il processo decisionale è basato anche sull’apprendimento delle situazioni registrate. I documenti esistono perché qualunque comunità ha bisogno di comunicare. Durante le guerre accedere alle comunicazioni del nemico è una delle attività principali. Chi ha le informazioni vince.
La scrittura è la ferita aperta. Conserva il male fatto e permette che possa essere rivelato.
Le comunicazioni che dal centro si devono propagare verso le periferie e viceversa devono esistere per forza e da sempre queste comunicazioni sono vulnerabili. Naturalmente non tutto quello che viene fatto o deciso viene messo per iscritto. La parte scritta è il poco che resta ma quel poco è già tantissimo per cercare la verità e provare a raccontarla.
Fonte: https://www.pangea.news/julian-assange-dialogo-stefania-maurizi/