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SCRIPTA MANENT

SCRIPTA MANENT

LETTURE SENZA CONFINI


IL CAPITALISMO NAZISTA. L'ETICA DEL LAVORO DAL TERZO REICH ALLE DEMOCRAZIE MODERNE

Publié par Luca Bistolfi sur 17 Octobre 2023, 17:47pm

Catégories : #Società

Mi scuso con la rivista e coi lettori per la lunghezza di questo articolo, impropria per una pubblicazione in rete. Ma l’argomento è tale da non poter essere liquidato con una manciata di paragrafi e un paio di citazioni. E vi posso assicurare che ho giocoforza dovuto lasciar fuori da queste righe molti altri riferimenti e argomentazioni non meno significativi dei presenti. Ma sono certo, o almeno mi auguro, che il lettore interessato saprà procedere da sé nella ricerca.

* * *

« Hitler credette di lottare per un paese, ma lottò per tutti, anche per quelli che aggredì e detestò. Non importa che il suo io lo ignorasse; lo sapevano il suo sangue, la sua volontà. Il mondo moriva di giudaismo e di quella malattia del giudaismo che è la fede di Gesù; noi gli insegnammo la violenza e la fede della spada. Tale spada ci uccide, e noi siamo paragonabili al mago che tesse un labirinto ed è costretto a errarvi fino alla fine dei suoi giorni o a David che giudica uno sconosciuto e lo condanna a morte e ode poi la rivelazione: “Tu sei quell’uomo”.
«Molte cose bisogna distruggere, per edificare il nuovo ordine; ora sappiamo che la Germania era una di quelle cose […].
«Si libra ora sul mondo un’epoca implacabile. Fummo noi a forgiarla, noi che ora siamo le sue vittime».
J. L. Borges, «Deutsches Requiem», L’Aleph
 

A seguito del mio articolo su Martin Walser e la questione tedesca, molti mi hanno interpellato per chiedermi ulteriori ragguagli e avere la mia opinione. Ovviamente quest’ultima non conta granché. I ragguagli però sì. Mi proverò a darne qualcuno di decisivo e solo alla fine suggerire una breve lezione.

Se fossi un poeta quasi mi basterebbero le parole di Borges, oppure potrei rimandare alla lettura del Svastica sul sole, ovvero L’uomo nell’alto castello, di Philip Dick, capolavoro la cui evidenza politica anticapitalistica è negata con sperticata sfrontatezza da ogni commentatore del genio americano. Ma poiché non sono un poeta e poiché non mi piace tagliarla troppo per le corte, spenderò alcune parole principiando da un testo uscito qualche anno fa ( e recensito da pochi ed elusivi) per la penna di un autore, come dicono i bravi ragazzi, “ al di sopra di ogni sospetto” quanto a rettitudine politica condivisa.

Johann Chapoutot osa accostare Nazismo e management, come suona il titolo del libro in cui si sostiene una tesi ben precisa: nella Germania postbellica (la Germania, si badi, occidentale) vivono e operano a più livelli figure legate a doppio filo con il Terzo Reich, teorizzando e applicando in favore del nuovo corso tedesco democratico criteri lavorativi in continuità col passato. E ciò alla luce del sole e alla conoscenza di tutti e soprattutto di chi deve sapere. Il sottotitolo non lascia spazio a equivoci: Liberi di obbedire.

Non è qui la stracca questione del riciclaggio di esponenti di un vecchio regime nella subentrata democrazia ( anche, ovvio) e nemmeno tanto ( anche, ovvio) della colpevolizzazione sotto altro rispetto dei tedeschi contro di che scrittori come Walser e qualche migliaio di cittadini si ribella, imbecillità in sé stesse e soprattutto a petto di quanto stiamo per leggere. Chapoutot sin dall’inizio tiene a spiegare di non voler insinuare l’idea per cui «il management ha origini naziste», né che si tratti di « un’attività intrensicamente criminale». Un’excusatio non petita in buona fede senz’altro, ma che non regge né alla luce dell’analisi storica né a quella degli studi dello stesso Chapoutot, e contribuisce a far drizzare le antenne a qualche lettore, perché in questa dichiarazione si concentra il silenzio sulla possibilità di espandere nel tempo e nello spazio il pericoloso raffronto tra nazionalsocialismo e gestione capitalistica, pubblica e privata, in epoca e in Paesi liberali. Anzi, è proprio la precedenza ( e poi continuità) storica del management a costituire un elemento a rafforzamento del legame con la politica nazionalsocialista.

Il trait d’union essenziale tra i due poli del discorso può essere condensato in una parola: produttività, cui – ovviamente – è legata un’altra: profitto. Poco o per nulla contano, a mio giudizio, sul piano sociale e politico le differenze, peraltro minime e messe in evidenza da Chapoutot se raffrontate in tal senso alle simiglianze, vero oggetto su cui meditare. Ne tolgo una tra le moltissime che lo studio ci offre. Parlando dell’organizzazione « Kraft durch Freude» (Forza, o potenza, attraverso la gioia), esemplata peraltro sull’invenzione tutta fascista del Dopolavoro, Chapoutot spiega: « L’idea è semplice: la forza produttiva è sostenuta dalla gioia, gioia che a sua volta viene generata dal piacere e dagli svaghi nel tempo libero. Come in tutto il resto dell’Occidente industrializzato, il “ tempo libero” gode di buona stampa in questi anni Trenta […]. Nella Germania dei nazisti il tempo libero ha senso solo se riferito al lavoro: esiste unicamente per rilassarsi, riposare e riarmare l’individuo produttore rigenerandone la forza lavoro» (corsivi miei). La KfD «ha il compito di rendere il luogo di lavoro bello e felice, e di consentire la rigenerazione della forza produttiva degli operai. È con questo intento che la KfD organizza concerti di musica classica nei reparti delle fabbriche […]. La sezione delal KfD «Amt Schönheit der Arbeit» (Bellezza del lavoro!), ha l’incarico di «riflettere sui temi quali l’arredamento, l’ergonomia, la sicurezza sul lavoro e gli svaghi sul luogo di produzione».

Osservazioni che richiamano alla mente, da una parte, alcune delle prime analisi marxiane, dall’altra, il mondo del lavoro odierno, ad esempio nella Silicon Valley. E infatti lo stesso Chapoutot subito dopo commenta con grande slancio:

«Straordinaria questa modernità nazista: non siamo ancora all’epoca dei calciobalilla, dei corsi di yoga e dei chief happines officers, ma il principio e lo spirito sono assolutamente gli stessi. Poiché il benessere, se non la felicità, rappresenta un fattore di efficienza e un requisito per una produttività ottimale, è indispensabile che si vigili su di esso» (corsivi miei).

Ancora un passaggio in continuità: «Dal 1933 al 1939… vengono stanziati 200 milioni di Reichsmark di fondi pubblici (più o meno un miliardo di euro attuali) per migliorare l’illuminazione e l’aerazione dei luoghi di lavoro e l’alimentazione dei lavoratori, ma anche per creare mense, sale conviviali, biblioteche aziendali, concorsi di giochi e gare sportive. Più che una sincera sollecitudine per la sorte degli operai, queste misure tradiscono la ferma volontà di incrementare la produttività» (corsivo mio).

Mica è finita, ché con il 1939, per ovvi motivi, la Germania inizia a privarsi di forza-lavoro e quindi dovrà utilizzare, soprattutto per far macinare la macchina bellica, di stranieri, che prendono il posto dei tedeschi «come lavoratori volontari o forzati»: al 1945 il Terzo Reich «ospita 15 milioni di lavoratori stranieri». E aggiunge Chapoutot: «Questi ultimi, nel caso dei lavoratori polacchi, dei lavoratori dell’Est e dei detenuti dei campi di concentramento [ovviamente in maggioranza ebrei, ndr] sono considerati una riserva di energia da sfruttare fino all’esaurimento. Ritenuti biologicamente dei sotto-uomini, costituiscono dal punto di vista economico una risorsa subumana o infraumana, da trattare come tale».

Dopo aver lungamente trattato di Reinhard Höhn, personaggio chiave del libro che il lettore si scoprirà da sé, Chapoutot svolge questa riflessione: «In modo significativo, gli insuccessi del metodo sono attribuiti alla persona del suo autore, al carattere ormai disturbante di un passato troppo apertamente nazista e non all’incompatibilità tra una certa cultura economica e una certa cultura politica. Quella della Repubblica federale tedesca ha accolto con favore il management di Bad Harzburg, che era assolutamente compatibile con i suoi principî: se l’ordoliberalismo si presentava come una libertà regolamentata, l’economia sociale di mercato mirava all’integrazione delle masse per mezzo della partecipazione e della cogestione, al fine di evitare il conflitto di classe e lo slittamento verso il “bolscevismo”. Höhn non ha mai abbandonato la sua cornice concettuale di riferimento, per lui al tempo stesso principio da cui muovere e ideale a cui tendere, vale a dire la comunità, preferibilmente chiusa. Di fatto è una comunità di professioni, di intuizioni e di cultura, che dopo il 1949 ha “ricostruito” le basi della produzione economica, dello Stato e dell’esercito. I quadri dirigenti del dopoguerra si erano tutti fatti le ossa durante il Terzo Reich, e molti di loro provenivano dall’sd o dalle ss. La transizione personale – delle singole carriere – e concettuale – delle idee – non fu in linea di massima particolarmente complicata: la “libertà germanica” diventava la libertà tout court, il “riarmo” si trasformava in ricostruzione e il nemico “giudaico-bolscevico” si era bonariamente ridotto a quello sovietico. Reinhard Höhn sarebbe stato, prima del 1945 e anche dopo, un uomo del suo tempo. È piuttosto oggi che sorge la domanda: com’è possibile che una società politica liberale, unica e inedita nella storia umana, tolleri pratiche che si contrappongono in modo così manifesto ai più fondamentali dei suoi principî? Il “management per mezzo del terrore” e l’alienazione quasi assoluta di individui ridotti a mero “fattore lavoro”, a pura “risorsa umana” o ad altro “capitale produttivo” sono stati introdotti nelle nostre società in ragione, o col pretesto, della “mondializzazione” e della sua realtà concorrenziale […]».

I metodi tradotti dal Terzo al nuovo e democratico Reich trovano conferme di applicazione a ogni piè sospinto: «Nel 2012 un quadro dirigente della catena della grande distribuzione Aldi, monumento della società dei consumi tedesca fin dagli anni Cinquanta e vera creatrice del discount, ha pubblicato un libro sulla sua penosa esperienza di manager di un centro di distribuzione dell’azienda. In Aldi, einfach billing. Ein ehemaliger Manager packt aus (“Aldi veramente a buon mercato. Un ex manager vuota il sacco”), Andreas Straub descrive l’universo opprimente del controllo e dell’assillo costante. Aldi si riconosce con orgoglio, fin dall’inizio, nel metodo di management di Bad Harzburg, come precisa il suo manuale per quadri». (Sarebbe gradito che qualche editore italiano lo traducesse).

Lo stesso Straub in un’intervista allo «Spiegel» ha dichiarato: «Il sistema vive di controllo totale e di paura». «Tutto appare accettabile pur di garantire la “massimizzazione del profitto”: il controllo della attività e del tempo di esecuzione è permanente, anche per mezzo di videocamere che riprendono i dipendenti». Ancora Straub: «Tormenti e pesanti pressioni sono un fatto quotidiano… I comitati di impresa sono assolutamente proibiti… La direzione è stata chiara: non vogliamo fastidi da nessuno».

Il ballo è invitante, sicché balliamo.

Fa il paio con le argomentazioni di Chapoutot «Auschwitz, o il Grande Alibi», un intelligente e documentato articolo d’un ebreo comunista, uscito nel 1960 su «le programme communiste», organo della sezione italiana del Partito comunista internazionale da noi guidato da Amadeo Bordiga. La tesi è semplice: il grande crimine dell’olocausto, e il successivo sfruttamento di esso, non può né deve essere imputato a cattiveria tedesca o alla malvagità umana, oppure ancora ad altre cause vaghe e infondate, buone per tutte le stagioni, quindi inservibili. Leggiamo qualche passaggio del contributo.

«Rifiutandosi di vedere nel capitalismo stesso la causa delle crisi e dei cataclismi che sconvolgono periodicamente il mondo, gli ideologi borghesi e riformisti hanno sempre preteso di spiegarli con la malvagità degli uni o degli altri. Si vede qui l’identità fondamentale tra le ideologie (se così si può dire) fasciste e antifasciste: entrambe proclamano che sono i pensieri, le idee, le volontà dei gruppi umani che determinano i fenomeni sociali.

«Contro queste ideologie, che noi chiamiamo borghesi perché sono le ideologie di difesa del capitalismo, contro tutti questi «idealisti» passati, presenti e futuri, il marxismo ha dimostrato che sono, al contrario, i rapporti sociali che determinano i movimenti ideologici. È qui la base stessa del marxismo, e per rendersi conto di fino a che punto i nostri pretesi marxisti l’hanno rinnegato, è sufficiente vedere che per loro tutto passa attraverso le idee: il colonialismo, l’imperialismo, il capitalismo stesso, non sono che degli stati mentali.

«Cosicché tutti i mali di cui soffre l’umanità sono dovuti a malvagi fomentatori: di miseria, d’oppressione, di guerra, etc. Il marxismo ha dimostrato che, al contrario, la miseria, l’oppressione, le guerre e le distruzioni, ben lungi dall’essere dovute a volontà deliberate e malefiche, fanno parte del funzionamento «normale» del capitalismo. Ciò si applica in particolare alle guerre dell’epoca imperialista», da che si staglia la «distruzione», detta da alcuni “per eccellenza”: la Shoah.

L’autore – anonimo, come da prassi della Sinistra comunista – si diffonde poi in un riassunto delle coordinate fondamentali del marxismo, che saltiamo per ovvi motivi di spazio, sulla scorta delle quali spiega lo sterminio degli ebrei aver avuto luogo «non in un periodo qualunque ma in piena crisi e guerra imperialiste. È dunque all’interno di questa gigantesca impresa di distruzione che bisogna spiegarlo. In questo modo il problema diventa chiaro; non dobbiamo più spiegare il “nichilismo distruttore” dei nazisti, ma perché la distruzione si è concentrata in parte sugli ebrei. Su questo punto nazisti e antifascisti sono d’accordo: è il razzismo, l’odio per gli ebrei, è una “passione”, libera e feroce, che ha causato la loro morte. Ma noi marxisti sappiamo che non vi è passione sociale che sia libera, che nulla è più determinato di questi grandi movimenti di odio collettivo».

Scosso e minacciato dalla Grande Guerra, dal movimento rivoluzionario del 1918-1928, sull’orlo di un collasso inusitato, il capitalismo tedesco deve correre ai ripari: «È per reazione a questa terribile minaccia che la piccola borghesia ha “inventato” l’antisemitismo. Non già, come dicono i metafisici, per spiegarele disgrazie che la colpiscono, quanto per tentare di preservarsene concentrandole su uno dei suoi gruppi. All’orribile pressione economica, alla minaccia di distruzione estesa che rendevano incerta l’esistenza di ogni suo membro, la piccola borghesia reagiva sacrificando una delle sue parti, sperando così di salvare e di assicurare l’esistenza alle altre. L’antisemitismo non deriva né da un “piano machiavellico” né da “idee perverse”: scaturisce precisamente dalla costrizione economica».

A questo punto il rivoluzionario riferisce in una nota un’informazione che richiama fortissimamente Chapoutot: «Il “Corriere della Sera” del 31 dicembre 1987 riporta un’interpretazione attribuita a un certo Rainer Reinhart, vicepresidente del settore amministrativo del VII distretto bavarese il quale, su un manuale di amministrazione militare, avrebbe definito lo sterminio organizzato come «vittoria dei principii di economicità». Si legge nel manuale: “Si pone la questione di carattere fondamentale se l’economia, intesa come principio formale, in caso di un potere dedicato al servizio del benessere pubblico, possa essere applicato universalmente. Se noi consideriamo tutto ciò partendo dal principio che il fine giustifica i mezzi, allora anche l’uso del gas venefico per lo sterminio di massa degli ebrei invece di una lunga serie di esecuzioni individuali è stata un’applicazione del principio di economicità”. Nonostante si tratti di un evidente paradosso che porta alle estreme conseguenze, nell’ambito di un certo sistema di riferimento, il cosiddetto principio di economicità, l’osservazione non è peregrina. Si tratta di vedere, appunto, quali sono i limiti, vale a dire il sistema di riferimento, entro i quali si applica il supposto principio. Il capo della comunità israelita di Berlino Ovest, Heinz Galinski, ha reagito dichiarando che il brano incriminato «è carico di disprezzo per la memoria delle vittime dell’olocausto e fornisce la prova di un modo di pensare antidemocratico». Aggiunge il «Corriere»: «L’imbarazzo delle autorità militari è temperato dal fatto che, anche se di largo uso, il manuale non è adottato ufficialmente». L’economicità non è un «principio universale», ma se il sistema di riferimento è il capitalismo, in quell’ambito lo è e basta. Se il nazismo è una delle forme in cui si manifesta il capitalismo, ecco che il «principio» trova la sua naturale e più conseguente applicazione. Galinski sbaglia di grosso attribuendo al «modo di pensare antidemocratico» un’osservazione fin troppo banale: si cade infatti nell’ovvietà notando che la democrazia non è meno massacratrice del totalitarismo. Ciò che cambia è solo la giustificazione formale, ma l’ambito giuridico è stabilito ad hoc e non fa cambiare la natura profondamente economica dell’atteggiamento sociale borghese».

E ancora: «Il razzismo non è un’aberrazione dello spirito: è e sarà la reazione piccolo-borghese alla pressione del grande capitale. La scelta della “razza”, vale a dire del gruppo sul quale si cerca di concentrare l’opera di distruzione, dipende evidentemente dalle circostanze. In Germania gli ebrei presentavano i «requisiti» del caso ed erano i soli ad averli: essi erano quasi esclusivamente dei piccolo-borghesi, e, in questa piccola borghesia, il solo gruppo sufficientemente identificabile. Solamente su di loro la piccola borghesia poteva incanalare la catastrofe […]. Incalzata dal capitale, la piccola borghesia tedesca ha dunque gettato gli ebrei ai lupi per alleggerire la propria slitta e così salvarsi. Naturalmente non in maniera cosciente, ma era questo il significato del suo odio per gli ebrei e della sua soddisfazione per la chiusura e il saccheggio delle loro botteghe. Bisogna dire che per parte sua il grande capitale era felicissimo di quanto accadeva: esso poteva liquidare una parte della piccola borghesia con il consenso della piccola borghesia. Meglio ancora: era la stessa piccola borghesia che si incaricava di questa liquidazione».

Potrei seguitare con altre citazioni, ma mi limiterò alla chiusa del contributo:

«Tutti i nostri bravi democratici antifascisti si sono gettati sui cadaveri degli ebrei. E li agitano sotto il naso del proletariato. Per fargli sentire l’infamia del capitalismo? No, al contrario: per fargli apprezzare, per contrasto, la vera democrazia, il vero progresso, il benessere di cui esso gode nella società capitalistica. Gli orrori della morte capitalistica devono far dimenticare gli orrori della vita capitalistica e il fatto che essi sono indissolubilmente negati fra di loro. Gli esperimenti dei medici SS dovevano far dimenticare che il capitalismo compie la sua gigantesca «sperimentazione» quotidiana con i prodotti concerogeni, gli effetti dell’alcolismo sull’ereditarietà, la radioattività delle bombe «democratiche». Se si mostrano le abat-jour di pelle umana è per far dimenticare che il capitalismo ha trasformato l’uomo vivente in abat-jour. Le montagne di capelli, i denti d’oro, i cadaveri divenuti merce, devono far dimenticare che il capitalismo ha fatto dell’uomo vivente una merce. È il lavoro, la vita stessa dell’uomo, che nel capitalismo è merce. Sta in ciò l’origine di tutti i mali. Utilizzare i cadaveri delle vittime del capitale per tentare di nascondere questa verità, servirsi di questi cadaveri per proteggere il capitale, è il modo più infame di sfruttarli fino in fondo».

La lettura da parte di autori ben al di sopra di ogni sospetto e dotati, a mio giudizio, di argomenti solidissimi ed evidenti, dovrebbe spingere i membri delle classi subalterne a riformulare la propria visione storica, viziata e da “idealismo” e da una cosciente e inesausta propaganda, non soltanto e non tanto per il fine in sé stesso di assumere una posizione non piegata alla propaganda di vincitori e servi loro, quanto soprattutto per dotarsi degli strumenti necessari alla lotta presente e futura, morale e materiale entro di che siamo piombati contro un sistema che da quel dì non dismette i suoi metodi consueti e li sta affinando sempre di più con gli stessi scopi.

Nel precedente contributo, dedicato al Metodo Giacarta di Vincent Bevins, dico del legame genitore-figli tra capitale e “fascismi”: ecco ora un bel mazzetto di resultati e prove relativi.

Il capitale e le classi dominanti, forse in parte pur essi storditi da tanta roboante menzognera retorica, con le sue coorti di gazzettieri storici accademici agitprop etcoetera, seguita ad ammannirci le solite foglie di fico buone per nascondere le sue pudenda necrotiche e seguitare la sua opera di massacro globale a più livelli e sempre più raffinata, da plurimi decenni. La “pandemenza”, agitata per rinnovare gli sconquassi dello ieri e che ora pare stia ripigliando vigore, è, tra i più recenti, l’ennesimo esempio della sua spregiudicatezza. Non c’è abbastanza linfa nelle vene dei subalterni da soddisfare alla sua sete di sangue. Ma noi siamo qui, finché avremo fiato in corpo.

Luca Bistolfi

 

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