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SCRIPTA MANENT

SCRIPTA MANENT

LETTURE SENZA CONFINI


SE PIRRO NON FOSSE CADUTO PER MANO D'UNA MEGERA AD ARGO ...

Publié par James Joyce sur 14 Février 2025, 08:44am

Catégories : #Pagine d'Autore

Se Pirro non fosse caduto per mano d'una megera ad Argo o se Giulio Cesare non l'avessero accoltellato a morte. Non dobbiamo cancellarle dalla mente. Il tempo le ha marchiate, e incatenate sono ospiti in quella stanza delle infinite possibilità che esse stesse hanno rimosso. Ma son forse possibili cose che si è certi non sono mai accadute? Oppure è possibile solo quel che è avvenuto? Tessi, tessitore del vento.

Ci racconti una storia, signore.

Sì, per favore, signore. Una storia di fantasmi.

Da dove cominciamo con questo? chiese Stephen, aprendo un altro libro.

Non pianger più, disse Comyn.

Prosegui tu, allora, Talbot.

E la storia, signore?

Dopo, disse Stephen. Procedi, Talbot.

Un ragazzo scuro di carnagione apri un libro e prontamente lo mise al riparo dietro la sua cartella. Recitò brandelli di versi sbirciando ogni tanto il testo:

Non pianger più, triste pastore, non pianger più

Ché Licida, il tuo dolore, non è morto,

Per quanto affondato sotto l'acqueo piano...

Dev'essere un movimento, allora, un'attualità del possibile in quanto possibile. L'affermazione di Aristotele prese forma nei versi farfugliati per galleggiar nel diligente silenzio della biblioteca di Saint Genevieve dove egli aveva letto, al riparo dal peccato di Parigi, sera dopo sera. Al suo fianco un siamese garbato consultava un manuale di strategia. Menti alimentate e alimentantesi intorno a me: sotto lampade a incandescenza, impalate, con antenne a palpitar leggere: e nell'oscurità del mio pensiero un bradipo dell'oltretomba, riluttante, timoroso di luminosità, che muta pieghe squamose da drago. Il pensiero è il pensiero del pensiero. Tranquilla luminosità. L'anima in un certo senso è tutto quel che è: l'anima è la forma delle forme. Tranquillità improvvisa, vasta, incandescente: forma delle forme.

Talbot ripeteva:

Per la preziosa potenza di Colui che camminò sull'onde

Per la preziosa potenza...

Volta pagina, disse Stephen tranquillo. Non vedo nulla.

Come, signore? chiese semplicemente Talbot, chinandosi in avanti.

La sua mano voltò pagina. Tornò indietro con la schiena e proseguì dopo essersi ricordato. Di Colui che camminò sull'onde. Anche qui su questi cuori vili la sua ombra ricade e sul cuore e le labbra dello schernitore e sulle mie. Ricade sulle loro facce impazienti che hanno offerto a lui un obolo del tributo. A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio. Un lungo sguardo da occhi scuri, una frase enigmatica da intessere e intessere sui telai della chiesa. Sì.

Indovina indovinello.

Bianca campagna, nera semenza.

Talbot fece scivolare il libro chiuso nella cartella.

Ho sentito tutto? chiese Stephen.

Sì, signore. C'è hockey alle dieci.

Mezza giornata. Giovedì.

Chi sa risolvere un indovinello? chiese Stephen.

Misero via i libri alla rinfusa, matite che schioccavano, pagine che frusciavano. Ammassandosi insieme legarono e agganciarono le cartelle, tutti gioiosamente ciarlando:

Un indovinello, signore. Lo chieda a me, signore.

Oh, lo chieda a me, signore.

Uno difficile, signore.

Ecco l'indovinello, disse Stephen:

Il gallo ha cantato

Blu il cielo è diventato:

Le campane in paradiso

Undici rintocchi han suonato

Per la pover'anima il tempo è arrivato

D'andare in paradiso.

Che cos'è?

Cosa, signore?

Ancora una volta, signore. Non abbiamo sentito.

I loro occhi s'ingrandivano man mano che i versi venivan ripetuti. Dopo una pausa, Cochrane disse:

Che cos'è, signore? Ci arrendiamo.

Stephen, con il prurito in gola, rispose:

La volpe che seppellisce sua nonna sotto un cespuglio d'agrifoglio.

S'alzò in piedi e scoppiò in una risata nervosa alla quale fecero eco i loro gridolini costernati.

Un bastone bussò alla porta e una voce nel corridoio gridò:

Hockey!

Ruppero le righe, muovendosi furtivi tra i banchi, saltandoli. In un attimo furono via e dal ripostiglio giunse un tamburellare di mazze e il clamore dei loro stivali e delle voci.

Sargent, che solo s'era attardato si fece avanti lentamente, mostrando un quaderno aperto. I capelli arruffati e il collo ossuto testimoniavano di una certa svogliatezza, e attraverso gli occhiali appannati occhi deboli guardavano dal basso supplicanti. Sulla sua guancia, smunta ed esangue, vi era una leggera macchia d'inchiostro, a forma di dattero, recente e umida come la scia di una lumaca.

Porse il suo quaderno. Scritta in alto la parola Calcoli. Sotto c'erano figure incrinate e in basso una firma contorta con occhielli ciechi e una macchia. Cyril Sargent: il suo nome e sigillo.

Mr Deasy mi ha detto di riscriverle tutte, disse, e di mostrarle a lei, signore.

Stephen sfiorò i lembi del quaderno. Inutilità.

Ora l'hai capito come devi farli? chiese.

Numeri da undici a quindici, rispose Sargent. Mr Deasy ha detto che dovevo copiarli dalla lavagna, signore.

Li sai fare da solo? chiese Stephen.

No, signore.

Brutto e inutile: collo lungo e capelli arruffati e una macchia d'inchiostro, una scia di lumaca. Eppure qualcuna l'aveva amato, tenuto tra le braccia e nel cuore. Non fosse stato per lei, in quella gara che è il mondo l'avrebbero calpestato, una smidollata lumaca spiaccicata. Ne aveva amato il debole sangue annacquato, succhiato dal suo. Era forse vero? L'unica cosa vera della vita? Il corpo prostrato della madre l'impetuoso Colombano in ardente zelo scavalcò. Lei non era più: lo scheletro tremante d'un ramoscello bruciato nel fuoco, un odore di legno di rosa e ceneri bagnate. Aveva evitato che lo calpestassero e se n'era andata, a malapena avendo vissuto. Una pover'anima andata in paradiso: e sulla brughiera sotto stelle scintillanti una volpe, rosso afrore di rapina nella pelliccia, con occhi lucidi e impietosi raschiava nella terra, ascoltava, raschiava via la terra, ascoltava, raschiava e raschiava.

Seduto al suo fianco Stephen risolveva il problema. Prova con l'algebra che il fantasma di Shakespeare è il nonno di Amleto, lui. Sargent sbirciò di traverso attraverso gli occhiali obliqui. Mazze da hockey tamburellavano nel ripostiglio: il colpo sordo di una palla e grida dal campo.

Sulla pagina i simboli si muovevano in solenne danza moresca, nella ridicola cerimonia delle lettere, indossando curiosi cappelli di quadrati e cubi. Dare la mano, attraversare, inchinarsi al compagno: così: diavoletti di fantasia dei mori. Anche loro scomparsi dal mondo. Averroè e Mosè Maimonide, uomini scuri all'aspetto e nelle movenze, che mettevano in mostra nei loro specchi dileggianti l'oscura anima del mondo, un'oscurità che risplende nella luminosità che la luminosità non riesce a comprendere.

Ora lo capisci? Lo sai fare da solo il secondo?

Sì, signore.

In lunghi tremolanti tratti Sargent copiava i dati. Sempre in attesa di una parola d'aiuto la sua mano muoveva fedelmente i simboli incerti, una tinta fievole di vergogna vacillante dietro la pelle opaca. Amor matris: genitivo soggettivo e oggettivo. Col suo sangue debole e il latte acido di siero, lei l'aveva nutrito tenendo nascoste alla vista altrui le sue fasce.

Come lui ero io, stesse spalle cascanti, stessa grazia assente. La mia infanzia si inchina accanto a me. Troppo lontana per posarvi una mano una volta o con leggerezza. La mia è lontana e la sua segreta come i nostri occhi. Segreti, silenziosi, sassosi siedono negli oscuri palazzi d'entrambi i cuori: segreti stanchi della loro tirannia: tiranni desiderosi d'esser detronizzati.

Il calcolo era fatto.

È molto semplice, disse Stephen alzandosi.

Sì, signore. Grazie, rispose Sargent.

Asciugò la pagina con un foglio leggero di carta assorbente e riportò il quaderno al suo banco.

Faresti bene a prendere la tua mazza e a unirti agli altri, disse Stephen, seguendo fino alla porta la sagoma sgraziata del ragazzo.

Sì, signore.

Nel corridoio si sentì chiamare il suo nome dal campo da gioco.

Sargent!

Corri, disse Stephen, Mr Deasy ti sta cercando.

Si fermò nel porticato e guardò il ritardatario affrettarsi verso il campo sconnesso dove voci stridule si davano battaglia. Furono divisi in squadre e Mr Deasy si fece avanti calpestando ciuffi d'erba con i piedi infilati nelle ghette. Quando ebbe raggiunto l'edificio della scuola, voci che di nuovo discutevano lo chiamarono. Voltò i suoi bianchi baffi cattivi.

 

James Joyce, Ulisse (Ulysses, 1922), Newton Compton, Roma, 2012 [1960], a cura di Enrico Terrinoni, prefazione di Enrico Terrinoni, traduzioni di Enrico Terrinoni, Carlo Bigazzi

 


 

 

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