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Il Testamento di François Villon è una delle opere più straordinarie della letteratura francese medievale. Scritto nel XV secolo da un poeta tanto geniale quanto maledetto, è insieme autobiografia, confessione e satira sociale. Nei suoi 2.023 versi, Villon intreccia il racconto della propria vita tormentata con una riflessione universale sulla condizione umana, consegnandoci un’opera di sorprendente modernità.
Nato a Parigi nel 1431, Villon vive nel pieno della Guerra dei Cent’anni, in un’epoca segnata da miseria, violenza e instabilità. Cresciuto in un ambiente povero, studia all’università grazie a un protettore, ma ben presto sceglie la via dell’irregolarità: furti, risse e prigioni punteggiano la sua esistenza errabonda.
Dietro la maschera del delinquente, però, si cela un poeta di straordinaria sensibilità, capace di fondere il linguaggio dei bassifondi con la musica del verso colto. La sua scomparsa, avvenuta misteriosamente nel 1463, ha aggiunto alla sua leggenda un’aura di enigma.
Il Testamento si apre come un vero e proprio atto notarile in versi, in cui Villon dichiara di voler lasciare in eredità al mondo i suoi ricordi, le sue amarezze e i suoi pensieri.
L’opera si articola in tre grandi movimenti:
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La denuncia – contro i ricchi e i potenti, bersagli della sua satira ironica e corrosiva.
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La memoria – dove emergono nostalgia e malinconia: l’infanzia perduta, gli amori svaniti, l’inesorabile scorrere del tempo.
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La confessione – il poeta si guarda dentro, riconosce i propri errori e cerca una forma di redenzione.
Il poema si chiude con il desiderio di sopravvivere attraverso la poesia, unico modo per sfuggire all’oblio.
Amore e morte dominano il Testamento: l’amore come forza ambivalente, capace di salvezza e perdizione; la morte come presenza costante, ironica e familiare, mai temuta ma interrogata con lucidità.
Segue il tema della giustizia, che Villon, spesso incarcerato, dipinge come arbitraria e crudele, e quello della condizione umana, che egli esplora con compassione e sarcasmo.
Dietro ogni invettiva si percepisce la voce di un uomo che, pur tra miseria e disincanto, continua a cercare un senso alla vita e una speranza nella parola poetica.
Il protagonista assoluto è Villon stesso: un antieroe, un uomo comune che parla per gli emarginati e i dimenticati.
Accanto a lui, la Morte diventa una figura quasi reale, compagna e interlocutrice, simbolo dell’inevitabile ma anche della giustizia universale.
Le donne appaiono in molteplici forme: cortigiane, figure di desiderio e perdizione, ma anche icone di purezza perduta, come nella celebre Ballata delle dame di un tempo.
Villon è un innovatore. Mescola linguaggio colto e gergo popolare, alterna registri lirici a toni comici e grotteschi, e usa con maestria i giochi di parole, le rime interne e le ripetizioni musicali.
Tra le forme predilette troviamo ballate, rondeaux e ballate doppie, strumenti perfetti per esprimere ritmo, ironia e malinconia.
Celebre la Ballata degli impiccati, in cui il poeta immagina la voce dei condannati a morte che implorano pietà: un vertice di poesia umana e compassionevole.
Il poema è costellato di allusioni alla mitologia greca, alla Bibbia e ai classici latini – da Virgilio a Ovidio – che Villon rielabora in chiave ironica e personale.
Dietro la sua scrittura apparentemente disordinata si cela un’intelligenza raffinata e un’acuta coscienza letteraria: Villon è un poeta colto che parla con il linguaggio del popolo.
Nei secoli, Il Testamento è stato letto come autobiografia poetica, satira sociale e confessione esistenziale.
Per alcuni critici rappresenta la prima grande voce individuale della letteratura francese; per altri, un’anticipazione dell’animo moderno, sospeso tra peccato e redenzione, ironia e disperazione.
I poeti simbolisti e decadenti – da Baudelaire a Rimbaud – videro in Villon un antenato spirituale: il primo poète maudit della storia.
L’influenza del Testamento è immensa. Villon ha aperto la strada a una poesia più libera, personale e umana.
Nei suoi versi convivono il realismo dei bassifondi e la musicalità dell’alto lirismo; un equilibrio che ispirerà autori come Hugo, Apollinaire e perfino Brassens, che ne farà rivivere le parole in musica.
Il suo lascito è quello di un poeta che, pur perduto nel mondo, trovò nella parola l’unica forma di salvezza.














