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SCRIPTA MANENT

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LETTURE SENZA CONFINI


IL MIO STENDHAL: ITALIA, LA FEBBRE DEL VIAGGIO, OVVERO IL ROMANZO DI UN VIAGGIATORE INQUIETO

Publié par Angelo Marcotti sur 9 Juillet 2025, 12:38pm

Catégories : #Autori sotto la Lente

La diligenza franò con un sobbalzo sull’acciottolato e si arrestò davanti alla piccola stazione di posta di Susa. L’aria di montagna aveva un odore più leggero, come di pietra e resina, e già mi sembrava diversa da quella che avevo respirato lungo le strade francesi. Mi fermai a osservare la facciata consunta della chiesa, qualche arco romano, e mi imposi di imprimere bene nella memoria quei resti: al ritorno, mi dissi, l’animo sarebbe stato stanco e il cuore già orientato verso la mia Parigi.

Mi rimisi in viaggio per Torino, che mi accolse come una regina severa, tra i suoi portici ombrosi e le piazze silenziose. Scelsi una stanza all’albergo Dufour, piazza Castello: la numero 30, ampia e con una finestra sul tramonto. Consigliai al portiere, con tono che non ammetteva repliche, di servirmi il pranzo “secondo la lista” e, dopo aver bevuto un bicchiere di Barbera che mi scaldò lo stomaco e lo spirito, mi persi sotto i portici di via Po.

Là, con le gambe ancora forti per la salita, decisi di raggiungere Superga. La chiesa – annotai nel mio taccuino – non vale la fatica. Ma la vista… quella sì, la vista era superba: Torino si stendeva ordinata, una scacchiera di tetti rossi, e oltre, le Alpi scintillavano come enormi drappeggi di neve.

Meglio il vetturino della diligenza”

A Genova ci arrivai lentamente, per scelta. La diligenza sarebbe stata più rapida, ma io avevo bisogno di compagnia, di ascoltare voci diverse, di osservare i volti dei miei compagni di viaggio: un mercante livornese che si lamentava dei dazi, un giovane seminarista con le mani bianche, un ufficiale sabaudo che guardava il mare con malinconia.

Genova mi si svelò in verticale, come una città che non sa stare ferma: case addossate le une alle altre, scale ripide, vicoli che sembravano scavati più per i gatti che per gli uomini. Mi sistemai alla Pensione Svizzera, stanza 26, al quarto piano. Aprii la finestra: il porto era un fermento di vele e di grida. La montagna, dietro, sembrava trattenere la città per impedirle di rotolare in mare.

Il giorno dopo, camminando fino a perdere la cognizione del tempo, mi trovai davanti a San Lorenzo. Entrai per ripararmi dal sole e, tra le navate fresche, mi fermai a osservare i mosaici, pensando che un uomo può attraversare mille strade diverse e restare sempre in cerca di qualcosa che non sa definire.

La strada più bella d’Italia”

Da Genova a Livorno, il vetturino impiegò tre giorni e mezzo. La carrozza procedeva lentamente, ed era un bene: i panorami lungo la costa erano troppo belli per correre. A tratti la strada si apriva sull’acqua, azzurra e scintillante; a tratti il vento portava l’odore di pini e rosmarino.

Più lentamente si va, meglio è”, scrissi nel mio taccuino. La Magra era in piena e il ponte rischiava di cedere. Risi tra me e me: un buon viaggiatore non si lascia mai scoraggiare dal pericolo, anzi, lo tiene come un brivido segreto sotto la pelle.

Firenze: il batticuore dell’arte

Firenze mi accolse con una pioggia sottile che bagnava i sanpietrini. Presi alloggio dalla Signora Imbert; la sera, nel salone da pranzo, troppi inglesi parlavano di caccia e di tè. Io scelsi di cenare con due italiani: un libraio e un giovane pittore. Era così che si capiva un popolo, attraverso le parole e i silenzi.

Il giorno dopo salii la scalinata di San Miniato: Firenze si aprì davanti a me come un mosaico di tegole rosse e cupole. Mi fermai a lungo, senza fretta, perché avevo la sensazione che il mio cuore, in quel preciso istante, battesse all’unisono con la città.

Roma e la vertigine

Roma non è una città: è un universo. Lì, la mia penna si fece più frenetica. Ogni strada era una rivelazione, ogni chiesa un teatro. Entrai a San Pietro e mi fermai davanti alla Pietà di Michelangelo: la perfezione assoluta mi lasciò stordito, come se stessi ascoltando un requiem suonato solo per me.

Al Colosseo, mentre salivo sulle volte sconnesse, sentii un brivido: “Attento a non romperti l’osso del collo”, mi dissi. Ma non potevo smettere di avanzare, come se la vertigine fosse parte del fascino di Roma.

Napoli e Venezia: il canto del Sud, la malinconia del Nord

Napoli fu un vortice: odore di mare, di cibo fritto, di cavalli sudati nelle carrozze. A Ischia e Capri sentii che il tempo aveva un altro ritmo, più lento, più sensuale.

A Venezia, invece, ogni cosa era un sussurro. Alloggiai alla Locanda della Luna, a venti passi da piazza San Marco. La sera mi sedetti al Florian, ascoltando le voci della città galleggiante. Venezia era un sogno che scivolava sull’acqua, e già sapevo che avrei sentito la sua mancanza prima ancora di lasciarla.

Il ritorno e l’ombra del congedo

Il viaggio proseguì verso Milano, poi il Lago Maggiore e le Isole Borromee. A Baveno, mentre la barca mi portava verso Domodossola, annotai: “Il viaggio in Italia è terminato; si va verso il brutto.” Eppure, sapevo che l’Italia mi sarebbe rimasta nel cuore come una febbre dolce, impossibile da guarire.

 

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