/image%2F4717381%2F20250708%2Fob_bb62ea_emilio-salgari-6.jpg)
Torino, 25 aprile 1911.
L’alba filtra opaca tra i pioppi del Po, e un uomo cammina lento, con la schiena curva sotto un peso che non è solo quello della giacca lisa. Ha i baffi ancora curati, un gesto di dignità ostinata, ma lo sguardo è quello di chi ha attraversato tempeste che nessun mare conosce. Le tasche sono ormai vuote di sogni, solo un biglietto del tram numero 5.
Eppure, quell’uomo è stato ovunque. È salpato verso la Malesia, ha sfidato i monsoni nel Mare Cinese, ha combattuto corsari nei Caraibi. Ci è arrivato con la forza disperata dell’immaginazione, trascinando con sé milioni di lettori. Perché coi miseri compensi dei suoi editori a malapena riusce a pagare l’affitto, e il viaggio, quello vero, non lo ha mai potuto fare.
Si chiama Emilio Salgari, e oggi il suo tram è giunto all’ultima fermata.
Era nato con un cuore di capitano e la fame di avventura. Si era iscritto all’Accademia Navale di Venezia per diventare un uomo di mare, ma la vita, crudele e meschina, gli aveva tarpato le ali. Così aveva preso la penna come un’arma, e aveva cominciato a scrivere per costruirsi un oceano tutto suo.
Scriveva come un dannato, perché non c’era altra scelta. Tre romanzi all’anno, a volte cinque, centinaia di pagine sputate in fretta, senza tempo per correggere, senza riposo, senza tregua. Scriveva di pirati liberi e indomiti mentre lui era uno schiavo della carta e dell’inchiostro. Fumava cento sigarette al giorno, mandava giù bicchieri su bicchieri per zittire i demoni che gli urlavano dentro. La critica lo disprezzava. Gli editori lo sfruttavano. Il pubblico lo amava e chiedeva sempre di più. Ma nessuno, nessuno gli tendeva una mano.
Intanto la vita lo azzannava alle spalle. A venticinque anni perse la madre, due anni dopo trovò il padre impiccato. Poi arrivò la follia della moglie, rinchiusa in manicomio. La sua casa si riempiva di lutti, di bollette non pagate, di figli da sfamare. E lui, piegato sul tavolo, continuava a scrivere e scrivere, con la disperazione di chi sa che ogni riga è un colpo di vanga sulla propria tomba.
Il 25 aprile Salgari prende carta e penna e lascia tredici lettere. Una, agli editori, è un colpo secco e definitivo:
“A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna.”
Poi esce di casa. Il tram lo porta fino al bosco di Val San Martino. Si inoltra tra gli alberi come se cercasse finalmente un altrove, un approdo. Ma l’unico viaggio che gli resta da fare è verso il silenzio. Si toglie la vita con un gesto che ha qualcosa di rituale, quasi fosse un samurai giapponese.
A casa lascia solo 150 lire e un credito da riscuotere. I figli e la moglie seguiranno, uno a uno, la scia di tragedia che sembra maledire quella famiglia.
E così finisce la storia dell’uomo che aveva creato mondi interi per fuggire dal proprio inferno. Senza mai riuscire a salvarsi.














