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La profezia – che non riguarda il magistero del vaticinio – è un fenomeno biblico, che s’irradia dall’angolo semitico al mondo: perfino Gesù è preso per “uno dei profeti” (Mt 16, 14), e i Nevi’im, i libri dei profeti, sono il cuore del canone ebraico. La profezia ha caratteri precisi, che si replicano: il “chiamato”, il profeta, non è un oratore ma un disadatto al dire, sta in un eremitaggio di linguaggi, non è un professionista, tanto meno un intellettuale (“Non ero profeta né figlio di profeta: ero pastore…” dice Amos), a volte è balbuziente, con lebbra alle labbra (“uomo dalle labbra immonde” si dice Isaia), spesso fugge la profezia (come Giona), perché Dio, irrichiesto, irrompe nella vita di un semplice, lo sradica, si fa rappresentare dall’infermo, dall’inferiore, dall’imperfetto. Il profeta, figura ammantata di cenci, ammirata per difetto, spergiurata, viene dai deserti, si accampa intorno alle mura della città, a cui rivolge anatemi, implorazioni, improperi. Egli usa, anche, parole d’amore (Osea, ad esempio), di cui rinvigorisce il gergo, ma il suo, soprattutto, è un compito “politico”, s’installa nella storia con furore eversivo, proiettando l’oggi nell’aldilà: “Il profeta è sicuramente uomo pubblico, egli proclama la parola divina ‘davanti alla’ comunità, alla società, alle sue autorità… Proprio perché egli penetra nella profondità trascendente degli eventi il profeta sa intuire e rivelare la logica di fondo con cui Dio traccia il suo piano salvifico e sa quindi intravederne gli sviluppi futuri” (così Gianfranco Ravasi in I libri dei profeti, Bur, 2004).
Per lo più, il profeta – che non ha chiesto né vuole quel ruolo – è ‘incredibile’, inatteso, non creduto, inascoltato.
Tra questi profeti, figure dal candore incandescente, che costituiscono un monito, un morso, il mostro nell’era moribonda, morbosa, ci sono scrittori – da Albert Camus a Céline, da Joseph Conrad e William Faulkner a Kunt Hamsun e Giovannino Guareschi, da George Orwell a Yukio Mishima –, poeti – Anna Achmatova, T.S. Eliot, Ezra Pound, Vladimir Majakovskij, tra gli altri –, pensatori inattuali – Alexandre Kojève, Oswald Spengler, Roger Scruton, Simone Weil – battitori liberi – Ennio Flaiano, Leo Longanesi, Giovanni Papini, Filippo Tommaso Marinetti, Giovanni Prezzolini – cardinali – Giuseppe Siri. Sarà caro, per alcuni, trovare, tra i 48 medaglioni, Jorge Luis Borges (“La luce, oltre il labirinto”), Cristina Campo (“fedele ad una sorta di imperativo morale che si riconosceva nella sprezzatura”), Giorgio De Chirico (“il nemico giurato del modernismo”), Oriana Fallaci, H.P Lovecraft, Ernst Jünger (“Sismografo dell’età della tecnica e del nichilismo”). Il catalogo è un album prezioso – i ritratti dei ‘profeti’ sono realizzati da Dioniso di Francescantonio, Sergio Massone, Vittorio Morandi, Lenka Vassallo –, cioè un invito al viaggio, alla lettura disperata, spericolata.
Spesso, questi ‘profeti’ hanno sofferto l’epoca, fino a morirne; spesso, sono stati inconsapevoli della propria profezia, che ci è offerta, oggi, come un incendio. “I profeti sono oracolo, visione, delirio, sogno. Tutte le nostre chiavi per interpretarli sono fatte di ragionamenti, di analisi nemica dell’unità visionaria. La mano non arriva a toccare l’altra, che si spenzola sull’abisso”, ha scritto Guido Ceronetti sul margine della sua traduzione del Libro del profeta Isaia (Adelphi, 1981; ora irreperibile: perché?). “Parola che si alimenta di deserto” quella del profeta, dice Ceronetti, “impone di farla più sgombra, che sia più nuda la nudità”. Ai confini di tutto, nel colmo della notte, i profeti, sempre, vegliano sull’alba, bianca come scaglia d’osso, con la stessa acrobatica acribia della scolta narrata in Isaia, “Sentinella, quanto misura la notte?… Viene il mattino, torna la notte, tornate, domandate”.
Qui si ricalca, dal regesto dei profeti del Novecento, l’icona dedicata a Boris Pasternak.
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Boris Pasternak era morto il 30 maggio del 1960, di notte; due giorni dopo, a Peredelkino, hanno luogo i funerali: il governo sovietico, temendo rivolte, invia tra la breve folla alcuni agenti in borghese. I giornali sovietici danno poco spazio alla notizia della morte di uno dei più grandi poeti del secolo; alcuni amici smorzano il pianto leggendo versi, “bisogna vivere senza impostura…/ che si oda il richiamo del futuro”. Nel 1957 l’editore Feltrinelli era riuscito, in modo rocambolesco, a pubblicare Il dottor Živago, un romanzo epocale, “un’opera artisticamente squallida, astiosa, piena d’odio per il socialismo… un atto politico ostile contro lo Stato sovietico”, secondo la “Pravda”. Pasternak, nel ’58, fu costretto a rifiutare il Nobel per la letteratura – non era mai accaduto nella storia. Espulso dall’Unione degli scrittori, impedito a pubblicare, così scrisse il poeta al politburo degli intellettuali: “Non mi aspetto giustizia da voi. Mi potete fucilare o perdonare, potete fare quello che volete. Vi perdono in anticipo”. Era nato nel 1890, a Mosca, il 10 febbraio, da Leonid Pasternak, pittore di alto talento, e da Rozalija Kaufman, pianista. La sua vita è scandita da incontri importanti: conobbe Lev Tolstoj (il padre illustrava i suoi romanzi), fu allievo di Aleksandr Skrjabin, lo straordinario compositore. L’amicizia con Rainer Maria Rilke, poi, sigillò il suo genio. A dispetto di Vladimir Majakovskij, insieme a lui la figura abbacinante della poesia russa del Novecento, “Pasternak si ritrasse sin dagli inizi in una sua gelosa solitudine… passava nel folto delle battaglie, che avrebbero mutato la Russia, come un sonnambulo, destandosi a tratti per annotare con voce assonnate, non le gesta del popolo, mai prodigi del cosmo” (così Angelo Maria Ripellino, suo traduttore d’eccellenza in Italia). Durante la Seconda guerra, il poeta partecipò alla difesa antiaerea di Mosca; soprattutto, reagì alla distruzione dell’Occidente traducendo Shakespeare e Goethe. Secondo Armand Robin, Pasternak è l’emblema della lotta, silente, profonda, al regime comunista: “Se fosse caduto nella trappola tesagli dai suoi nemici comunisti, in Occidente sarebbe diventato un adulato ‘uomo di lettere’. Restando lì dov’è, immutabile, egli preserva quel non so cosa che nella Russia bolscevica dona alla poesia un carattere quasi religioso”. Poco prima di morire, si figurava “uno spazio la cui integrità e purezza vanno dapprima comprese e poi riempite di questa comprensione”: aveva ormai superato la propria opera, incenerita nel salto verso il futuro, una capriola blu.