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SCRIPTA MANENT

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LETTURE SENZA CONFINI


ELENA VI SALUTA

Publié par Jules Previ sur 22 Octobre 2025, 16:45pm

Catégories : #Racconti Brevi

Racconto ispirato a una storia vera

Non sono cattiva. Sono stanca.”
— frase trovata nel quaderno di Elena
Il silenzio di Sollicciano

L’alba a Sollicciano arriva in silenzio.
Le luci al neon, ancora accese, tremano contro i muri umidi del corridoio. Le guardie passano lente, con il passo che si trascina tra il ferro e la polvere.
Dietro le porte chiuse, un respiro si spegne, e nessuno se ne accorge subito.

Nella cella 27, Elena non c’è più.
Il suo corpo è immobile, sospeso a mezz’aria, e sul muro, con la calligrafia di chi non ha più paura, la scritta:

«Elena vi saluta».

Il messaggio è breve, quasi gentile. Non c’è rabbia, né disperazione, solo una resa dolce, come una carezza a chi resta.
La scritta, tracciata con una matita rossa, macchia l’intonaco scrostato. Nessuno saprà mai quanto tempo ci abbia messo a scegliere quelle tre parole.

Quando l’agente apre la porta, il tempo si ferma.
Nel corridoio l’odore del disinfettante si mescola a quello acre del metallo.
Le altre detenute si alzano una dopo l’altra. Alcune si fanno il segno della croce, altre restano in silenzio.
Una di loro sussurra:
— L’aveva detto che se ne sarebbe andata. Ma nessuno le ha creduto.

Fuori, il cielo sopra Firenze è chiaro, di un azzurro che sembra finto.
Dentro, una guardia raccoglie da terra una treccia di stoffa che Elena aveva intrecciato la sera prima.
Nel letto rimangono due calzini piegati con cura, come se dovesse tornare da un momento all’altro.

A mezzogiorno, la notizia corre tra i reparti.
Le voci si rincorrono, si confondono. Qualcuna piange.
Il cappellano, don Stefano, si toglie gli occhiali e si siede senza dire nulla.
Sa che, nel linguaggio delle detenute,
“Elena vi saluta” non è solo un addio: è un modo per dire “ricordatemi, anche solo per un momento”.

La bambina arrivata dall’Est

Aveva solo quattordici anni quando arrivò in Italia.
Un viaggio lungo due giorni, in pullman, con una borsa di plastica piena di vestiti e biscotti secchi.
Nessuno la aspettava alla stazione. Solo la nebbia, e la voce di un uomo che la chiamò per nome.

Fu lui a portarla via, promettendole una stanza, dei vestiti belli, un lavoro.
Quella notte dormì su un materasso sporco, in un appartamento vicino alla stazione.
Il mattino dopo, le misero un rossetto troppo rosso e un giubbotto corto.
Capì allora che lavoro avrebbe fatto.

In strada imparò presto a sopravvivere.
I clienti non avevano volto, solo mani e odori.
Il crack arrivò dopo, come una tregua: bastava poco, e il mondo diventava lento, quasi gentile.
Diceva alle amiche che era come “andare via senza muoversi”.

A diciassette anni la fermarono.
Un cellulare rubato, cento euro falsi.
Pontremoli, istituto minorile.
Lì conobbe
Chiara Bandini, la sua prima avvocata.
— Ti difenderò io, — le disse Chiara.
Elena la guardò a lungo, poi chiese:
— Se muoio qui dentro, ti ricorderai di me?

Il figlio arrivò l’anno dopo, e le fu tolto appena nato.
Da allora contava i compleanni per due: il suo, e quello del bambino, da qualche parte nel mondo.

Il carcere e gli incontri che contano

Il carcere di Sollicciano ha un odore che non va via.
È ferro, sudore, umidità.
Appena entrata, Elena pensò che somigliava a certi scantinati dove aveva dormito da bambina.

Una donna anziana, di Napoli, le offrì un pezzo di pane.
— Mangia, qui non si vive se non si divide.
Lei sorrise. Quel sorriso era già un inizio.

Le volontarie dell’associazione Pantagruel portavano libri e quaderni.
Lucia le diede un taccuino blu:
— Scrivici quello che vuoi.
Elena scrisse:

Nessuno mi aspetta, ma io aspetto tutti.”

Don Stefano, il cappellano, le parlava senza giudicare.
— Se Dio mi ha fatta così, perché mi punisce? — gli chiese.
— Forse non ti punisce, Elena. Ti tiene stretta, ma tu ti divincoli.

A volte, Elena faceva le trecce alle altre.
Cantava piano in rumeno, e il cortile sembrava meno triste.
Le guardie la salutavano per nome.
Per la prima volta, qualcuno la vedeva davvero.

Un giorno, guardando un moscone intrappolato nel vetro, disse:
— Poverino. Pensava che quella luce fosse l’uscita.
Lucia non capì subito.
Solo dopo, ricordando, pensò che quella frase era già un addio.

Il giorno prima

Sabato 6 settembre 2025.
Sole alto, aria pesante.
Elena camminava piano nel cortile, le mani in tasca. Guardava il cielo come chi misura la distanza.

In mensa mangiò poco.
Lucia la salutò:
— Ci vediamo lunedì.
— Va bene, — rispose Elena. — Grazie per il quaderno.

Nel pomeriggio fece la doccia più tardi.
Restò sotto l’acqua a lungo, la fronte appoggiata al muro.
Si guardò le mani: piccole, piene di segni.
Si pettinò, sistemò le cose sul tavolino.

Verso sera, fece una treccia alla compagna di cella.
— Come sei bella, — le disse.
— Ti sei messa a fare la parrucchiera?
— Forse sì. Forse in un’altra vita lo ero.
Poi la salutò:
— Buonanotte, piccola.

A mezzanotte, scrisse:

Non ho paura.
Non piangete.
Elena vi saluta.”

Alle 5:47, la guardia aprì la porta.
Solo silenzio.
Sul muro, in rosso, restavano le sue parole.

Il funerale e il silenzio

Il funerale si tenne tre giorni dopo, al cimitero di Trespiano.
Cielo limpido, vento leggero.
Otto persone, nessun parente.

L’avvocata Bandini portò dei fiori di campo.
“Era solo una ragazzina che voleva essere guardata con gentilezza,” pensò.

Don Stefano lesse piano:
— Signore, tu conosci il suo dolore, e sai quante volte ha cercato un posto dove sentirsi a casa.

Alcune detenute piangevano.
— Ci salutava sempre, anche quando non aveva forza, — disse una.
— Adesso forse è libera davvero, — rispose un’altra.

Lucia aprì il quaderno blu.
L’ultima frase diceva:

Non sono cattiva. Sono stanca.”

Lo posò accanto alla terra fresca, e rimase lì, in silenzio.

Il vento muoveva i rami dei cipressi.
Otto persone andavano via, una dopo l’altra.
Ma sopra quella tomba, l’aria sembrava diversa — come se il mondo, per la prima volta, la stesse davvero ascoltando.

Elena vi saluta.
E questa volta, il Mondo risponde.


 

 

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