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Il sole di Pescara filtrava tra le nuvole, tiepido e ingannevole.
Era il 14 aprile 2012, trentunesimo minuto del primo tempo.
Piermario correva, come aveva sempre fatto: passo ampio, sguardo fisso sulla palla, quel modo inconfondibile di affrontare ogni azione come se fosse la prima.
Poi, all’improvviso, le gambe cedettero. Una, due, tre volte. Provò a rialzarsi.
Lo fece davvero, per un istante — come se la volontà potesse vincere sul corpo.
Ma la terra lo richiamò a sé.
Ci fu un silenzio irreale. Il mormorio dello stadio si spense come una fiamma nel vento.
I compagni corsero, gli avversari si fermarono.
Un portiere si inginocchiò, una mano tesa sul prato.
Piermario non rispondeva più. Il suo corpo, magro e resistente come un albero che ha conosciuto troppe tempeste, si piegò piano, e restò immobile.
In quel gesto, in quel cadere e rialzarsi, c’era tutta la sua vita:
un ragazzo che aveva imparato a rialzarsi sempre, anche quando nessuno avrebbe più avuto la forza di farlo.
Il sogno e la famiglia
Piermario Morosini era nato a Bergamo, il 5 luglio 1986.
Un’estate di luce, di campi e di palloni che rotolavano tra le strade del quartiere.
Fin da bambino amava correre, sudare, giocare.
Non c’era nulla di sofisticato nei suoi sogni: voleva soltanto diventare calciatore.
Ma per lui non era una fuga: era una vocazione.
Suo padre, Aldo, lo accompagnava ai primi allenamenti su un vecchio motorino.
Piermario saliva dietro, con la borsa più grande di lui.
La madre, Camilla, lo aspettava ogni volta alla finestra e, quando rientravano, gli passava un asciugamano e un sorriso.
«Bravo, Pier, ma ricordati: nella vita si deve ringraziare anche quando si perde.»
Era una frase semplice, ma in qualche modo gli rimase cucita dentro.
Cresciuto nelle giovanili dell’Atalanta, non aveva la sfrontatezza dei predestinati, ma la pazienza degli uomini veri.
Si allenava più degli altri, arrivava prima, tornava ultimo.
Non si lamentava mai, neanche quando il mister gli chiedeva l’impossibile.
Aveva mani che sapevano confortare e un sorriso che disarmava.
Giocava con rispetto, come se ogni minuto in campo fosse un dono.
Quella dedizione gli aprì la strada.
Lo chiamavano “Moro”, e tutti sapevano che potevi fidarti di lui.
Non era il più tecnico, né il più appariscente, ma era quello che non mollava mai.
Poi la vita decise di metterlo alla prova.
A quindici anni, quando la maggior parte dei ragazzi vive la spensieratezza, Piermario conobbe il dolore.
Sua madre, Camilla, si ammalò.
Lui continuava ad allenarsi, ma ogni volta tornava a casa in silenzio, si sedeva accanto al letto, le prendeva la mano e sorrideva come se bastasse la sua presenza a far passare la paura.
Quando lei se ne andò, in un pomeriggio di primavera, Piermario non pianse davanti a nessuno.
Lo fece di notte, da solo, nel suo letto.
Aveva quindici anni, e la vita gli aveva già tolto la sua prima certezza.
Due anni dopo arrivò un altro colpo: morì anche suo padre, Aldo.
Piermario si trovò improvvisamente solo, con un fratello maggiore e una sorella più piccola, disabile.
Aveva diciassette anni, ma dentro era già un uomo.
Molti si sarebbero fermati. Lui no.
Disse soltanto: «Devo farcela. Per loro.»
E poi, nel 2004, arrivò la tragedia che avrebbe spezzato chiunque: il fratello, schiacciato dal dolore, decise di togliersi la vita.
Piermario rimase orfano, senza genitori, senza fratello, con una sorella da proteggere e il mondo sulle spalle.
Eppure non crollò.
Continuò a correre, ad allenarsi, a credere che quel pallone potesse ancora dargli un senso.
«Il calcio mi ha salvato,» disse una volta. «Mi ha tenuto in piedi quando tutto intorno cadeva.»
Non lo faceva per gloria.
Giocava per mantenere una promessa muta: quella di non arrendersi mai, di restare in piedi per chi non poteva più farlo.
Dopo le perdite, restava solo il calcio.
Non come un rifugio, ma come un modo per continuare a respirare.
Piermario entrava in campo con una fame tranquilla, quella di chi sa quanto ogni occasione sia fragile.
Nessuno gli aveva regalato nulla: ogni convocazione, ogni maglia, ogni minuto se li era guadagnati.
All’Atalanta imparò la disciplina.
All’Udinese, la pazienza.
Nei prestiti — Bologna, Vicenza, Reggina, Padova — imparò l’umiltà.
Ogni squadra era una nuova casa da costruire, un’altra città da conoscere, un’altra valigia da riempire.
C’erano camere in affitto, treni presi all’alba, allenamenti sotto la pioggia.
Ma mai una parola di lamento.
«Morosini è un ragazzo che non molla mai,» dicevano gli allenatori.
Nello spogliatoio era l’ultimo a parlare e il primo ad ascoltare.
Quando qualcuno aveva un problema, andava da lui.
Non offriva soluzioni, ma presenza — e quella bastava.
Aveva una risata limpida, disarmante, e il dono raro di non giudicare.
Nel 2006 arrivò la maglia azzurra dell’Under 21.
Per molti era una tappa, per lui un riscatto.
Entrare in campo con la Nazionale significava portare con sé tutto ciò che aveva perso: il padre, la madre, il fratello.
«Ce l’ho fatta,» disse quella sera, guardando verso la tribuna vuota, dove immaginava i loro volti.
Era un calciatore onesto, un uomo buono, un professionista che viveva il sogno con rispetto.
Chi lo conobbe diceva:
«Morosini non era un talento che brillava: era una luce che scaldava.»
Fu a Livorno che trovò la sua dimensione.
Una squadra di provincia, ma con il cuore grande come il mare.
Lì Piermario si sentiva a casa: la gente semplice, il gruppo unito, lo spirito di lotta.
Aveva ventisei anni, ma la serenità di chi ne aveva vissuti il doppio.
Ogni settimana chiamava la sorella, la sua priorità.
Le raccontava delle partite con parole semplici, mai del peso che portava dentro.
«Va tutto bene,» diceva sempre. «Promesso.»
Nei giorni liberi andava a trovare i ragazzi del settore giovanile.
Si fermava con loro, parlava di calcio e di vita.
«Il talento serve,» diceva, «ma serve di più il cuore. Quando cadi, rialzati. Sempre.»
Aveva la grazia dei sopravvissuti: non faceva prediche, ma bastava guardarlo per capire che dietro quel sorriso c’era un mondo intero.
Un compagno di squadra raccontò poi:
«Era uno che si allenava come se ogni allenamento fosse una finale.
Lo vedevi arrivare in spogliatoio con la musica nelle cuffie e quello sguardo calmo.
C’era qualcosa di leggero e forte in lui. Come se avesse imparato a fare pace con la vita.»
Piermario non parlava mai del dolore.
Lo portava dentro, lo trasformava in energia, in movimento, in fiato.
Ogni corsa, ogni tackle, ogni respiro era un modo per dire: sono ancora qui.
Sabato 14 aprile 2012.
Il Livorno giocava in trasferta a Pescara.
Un pomeriggio luminoso, aria di mare, una partita come tante.
Piermario era sereno. In albergo aveva scherzato con i compagni, poi aveva guardato un video della sorella.
«Dai, tocca a noi,» aveva detto entrando in campo.
Allo stadio Adriatico c’erano quasi diecimila persone.
Il Livorno in maglia granata, il Pescara in bianco e celeste.
Il primo tempo scorreva via veloce, le gambe giravano, il respiro era regolare.
Poi, al minuto 31, il corpo decise di fermarsi.
Piermario fece pochi passi, si portò una mano al petto e cadde.
Provò a rialzarsi. Una volta. Due volte. Tre.
Si aggrappò all’erba come a una promessa.
Poi si accasciò di nuovo.
Quel gesto, quel rialzarsi per tre volte, divenne il simbolo della sua vita.
In panchina i compagni urlarono il suo nome.
I medici corsero. Il tempo si fermò.
Un silenzio strano avvolse tutto, come se lo stadio avesse smesso di respirare.
Piermario non rispose più.
Lo portarono via tra applausi e lacrime, come si accompagna un eroe silenzioso alla sua ultima corsa.
La notizia arrivò come un vento freddo, improvviso:
«Morosini non ce l’ha fatta.»
Tre parole che nessuno voleva credere.
Nel giro di pochi minuti, ogni campo d’Italia smise di giocare.
Le partite vennero sospese, gli altoparlanti chiesero silenzio, i cronisti tacquero.
In ogni stadio, per un minuto, si sentì soltanto il rumore del vento.
A Livorno i tifosi scesero in strada.
Appesero striscioni, lasciarono fiori davanti allo stadio.
A Bergamo, davanti alla casa dove era cresciuto, qualcuno posò un pallone e una sciarpa amaranto.
“Ciao Piermario,” c’era scritto. “Hai vinto tu.”
Perché, in fondo, chi vive così non perde mai davvero.
Il funerale fu una preghiera collettiva.
Atleti, compagni, avversari, amici, sconosciuti.
C’era un silenzio denso, pieno di rispetto.
Nessuna enfasi, nessuna retorica. Solo dolore e riconoscenza.
“L’ho visto cadere tante volte in allenamento,” disse un compagno.
“Ma si rialzava sempre. E anche quel giorno, in campo, ci ha provato tre volte.
Non esiste immagine più vera di lui.”
Gli anni passarono, ma il suo nome non svanì.
Ogni aprile, qualcuno lo ricorda.
Non solo come calciatore, ma come esempio di dignità.
“Cadere non è fallire. Restare a terra, sì.
Ma se hai ancora fiato, se hai ancora cuore, prova a rialzarti. Sempre.”
Nelle sere di primavera, quando i campi si svuotano e l’erba è ancora calda di partite, il vento scende piano dagli spalti.
Tra le porte, tra le linee bianche ormai sbiadite, sembra di vedere ancora un ragazzo in corsa:
il passo sicuro, la testa alta, quel sorriso timido.
Forse è solo un’illusione.
O forse è il modo in cui la memoria decide di restare viva: trasformandosi in respiro, in luce, in silenzio.
E ogni volta che un ragazzo cade e si rialza, ogni volta che stringe i denti e riparte, Piermario è lì — in quel gesto, in quel soffio.
Un ragazzo che ha insegnato che la grandezza non si misura nei gol, ma nel coraggio con cui affronti la vita.
E finché ci sarà qualcuno disposto a rialzarsi,
il suo cuore continuerà a battere, invisibile ma presente,
fino all’ultimo respiro.














