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Il campo di sabbia
Il sole del pomeriggio scivolava stanco sul margine del villaggio di Kaolack. Sulla terra secca, tra case di fango e baracche di lamiera, c’era un piccolo campo senza linee bianche né tribune: due pietre per pali e un pallone sfinito che rotolava tra le grida dei bambini.
Lì Cheikh Touré diventava qualcuno. I piedi nudi sollevavano nuvole di polvere, i muscoli si tendevano come molle, negli occhi una luce che nessun coetaneo eguagliava.
“Un giorno giocherò in uno stadio vero,” diceva. Ridevano, ma lui non scherzava.
Era alto e magro, grandi mani da portiere e un sorriso che apriva un varco nella fatica dei giorni. Dopo una parata urlava: “Nemmeno Edouard Mendy l’avrebbe presa così!” Il villaggio lo chiamava “il sogno di Kaolack”.
Sua madre, Awa, lo osservava spesso dalla soglia. Corpo esile piegato dal lavoro, occhi pieni di tenerezza. Parlava poco, perché le parole pesavano; ma quando lui rientrava accaldato e felice, gli porgeva un bicchiere d’acqua e gli passava la mano tra i capelli.
“Il mondo è grande, Cheikh. Ricorda da dove vieni.”
Lui annuiva; dentro, però, non vedeva l’ora di assaggiarlo, quel mondo.
Il sogno
Per Cheikh il calcio non era un gioco. Era una promessa, un riscatto, una via d’uscita dalla povertà che stringeva il villaggio.
Ogni sera, dopo l’allenamento, si sedeva su un muretto con un quaderno sgualcito. Scriveva i nomi dei grandi portieri visti nei video sul telefono: Mendy, Courtois, Onana… e poi il suo: “Cheikh Touré – Senegal”. Sotto, una bandiera, un campo, una maglia con il numero 1.
Awa lo lasciava sognare; a volte pensava che, per una volta, Dio potesse guardare anche verso di loro. Quando Cheikh parlava di provini, accademie, contatti, lei fingeva di crederci. “Se è destino, troverai la tua strada,” diceva.
Ma dentro la rodeva una voce: la paura. Aveva visto troppi ragazzi partire per Dakar o per l’estero, promettere un ritorno e poi perdersi nel silenzio.
L’occasione
La notizia arrivò in un pomeriggio di marzo. Un uomo — l’amico di un amico — cercava giovani talenti per un provino in Ghana. Diceva di lavorare per un club minore “tenuto d’occhio da una squadra europea”. Bisognava solo pagarsi il viaggio; vitto, alloggio e opportunità sarebbero arrivati.
Cheikh non dormì per due notti.
“È la mia occasione, mamma,” disse una mattina, con gli occhi che brillavano.
Awa guardò la borsa: una maglietta rossa, un paio di scarpe, la foto del padre morto quando Cheikh era bambino. “E se non fosse vero?” sussurrò.
“Lo è, mamma. Mi aspettano al confine.”
“E se ti succede qualcosa?”
“Mamma… non succederà. Torno presto, con un contratto e la tua casa nuova. Te lo prometto.”
Le promesse, lì, pesano come il sangue. Awa non insistette. Lo abbracciò, sentì sotto le dita le ossa di quel corpo ancora ragazzo e pensò che a volte i sogni dei figli sono più grandi delle paure delle madri.
Gli mise in tasca l’unica banconota che aveva — cinque franchi. “Per mangiare qualcosa lungo la strada.” Poi fece un segno di benedizione e lo vide sparire nella polvere del sentiero.
Il viaggio
L’autobus partì all’alba. Cheikh, al finestrino, guardava scorrere i campi aridi, i villaggi, i bambini scalzi che salutavano. Il motore tossiva, qualcuno pregava, qualcuno rideva.
Stringeva la borsa sulle ginocchia; ogni tanto toccava la foto del padre e pensava: Vedrai, papà. Stavolta ce la faccio.
Ad Accra, la capitale del Ghana, lo attendevano due uomini in giacca scura. Non sembravano allenatori. Uno parlava poco, l’altro rideva troppo. “Domani il provino,” dissero.
Lo portarono in una casa alla periferia: un edificio tozzo, finestre sbarrate, odore di benzina. Quella notte Cheikh faticò a dormire; sul materasso sporco sentiva un’inquietudine sottile, come un occhio nell’ombra. Poi pensò alla madre e si lasciò prendere dal sonno.
La trappola
La mattina della prova, la città ronzava di clacson e mercato. L’aria era calda, la luce tagliente dietro le persiane.
“Preparati,” disse uno dei due. Niente maglietta da coach né fischietto, solo un telefono dallo schermo crepato.
Cheikh, con i guanti infilati alla meglio, guardò attorno: nessun altro ragazzo, nessun campo. Solo un cortile di cemento, un cane magro, un cancello pesante.
“Dove andiamo?”
“Tranquillo. Prima i documenti, poi il provino.”
La parola “documenti” rimbalzò come moneta falsa. Cheikh incrociò lo sguardo dei due: uno fissava il pavimento, l’altro alzò le spalle.
Il cancello si richiuse. Corridoio lungo, porte uguali. Il sorriso dell’uomo svanì.
“Telefoni,” disse, mano tesa. “Solo per sicurezza.”
Cheikh esitò. Gli passarono davanti i club sognati, la promessa alla madre; consegnò il telefono. La porta scattò dietro di lui.
Capì di essere in gabbia.
Le ore scivolarono come sabbia. Domande vaghe, voci fredde, richieste di denaro “per permessi”.
“Non ho soldi,” disse Cheikh.
“Famiglia?”
“In Senegal.”
“Bene. Allora chiama.”
La stanza si rimpicciolì. Tremava, fissando un punto sul muro. “È una formalità: se pagano, tutto scorre,” ripetevano.
Quando lo lasciarono solo, Cheikh sentì un ronzio dentro. Non era solo paura: era il crollo del futuro immaginato. Appoggiò la fronte al muro freddo. “Mamma,” mormorò.
La madre
In Senegal, Awa stava stendendo i panni quando il telefono vibrò. Il sole alto, gli uccelli muti.
“Cheikh?”
La voce non era la sua.
“Signora, suo figlio è con noi. Sta bene. Serve una somma piccola per completare i documenti: 1.300 franchi. Poi tutto a posto.”
Awa restò immobile. La cifra era immensa, ma il tono era chiaro: richiesta travestita da minaccia.
“Posso parlare con mio figlio?”
Un fruscio.
“Mamma… sto bene,” disse Cheikh. Nel cercare di risparmiarla, le spezzò il cuore.
“Dove sei? Hai mangiato? Chi c’è con te?”
“Va tutto bene. Devono… i documenti. Torno presto.”
La chiamata si chiuse. Awa guardò le proprie mani: sottili, screpolate, vene in rilievo come rami secchi.
Trovare 1.300 franchi era come trovare il mare nel deserto. Ma una madre non si ferma. Andò dalla vicina, poi dall’anziano. Fu respinta con gentilezza e vergogna. Vendette un bracciale di rame di sua madre, un sacco di riso, il vecchio ventilatore.
Ogni moneta era una promessa strappata alla quotidianità. A sera contò e ricontò: non bastava.
“Domani,” pregò, “domani troverò il resto.”
La mattina dopo i rapitori richiamarono.
“Tempo finito. Oggi.”
“Vi prego. Ho già qualcosa. Datemi qualche ora.”
Risero piano. “Oggi.”
Awa corse in parrocchia dal missionario, poi alla moschea dall’imam. Le porte si aprirono, le mani offrirono ciò che potevano. Ma la cifra restava lontana come l’orizzonte.
Prima di mezzogiorno capì che non ce l’avrebbe fatta.
“Parlatemi ancora,” implorò. “Vi supplico.”
La linea cadde.
Il video
Stava lavando il pavimento quando il telefono vibrò. Un messaggio. Un link. Nessuna parola. Lo aprì.
Sul piccolo schermo scorsero immagini tremolanti. Il cuore di Awa si fermò, poi riprese a colpi irregolari. Vide un corpo, ombre, udì voci lontane, sentì il proprio nome strozzato in gola.
Non serviva vedere tutto per capire. La mente tolse il dettaglio e lasciò l’essenziale: suo figlio non c’era più.
Il telefono le scivolò dalle mani, cadde e rimbalzò due volte. Awa restò immobile, come un albero colpito dal fulmine che ancora non sa di essere spaccato.
Poi l’urlo: profondo, antico, un suono della terra. I vicini accorsero; uno raccolse il telefono, un’altra la sorresse.
“Respira,” dicevano. Ma non c’era aria: solo un cratere dove prima c’era il futuro.
Nel pomeriggio, seduta per terra con un velo sul capo, Awa riguardò il video. Fermò, cancellò, ricordò comunque.
Il mondo è un posto dove un figlio può inseguire un sogno e cadere in un pozzo senza fondo, pensò. Non lo avrebbe lasciato solo neppure adesso.
Compose numeri di uffici e governi. Parlò poco, ma la voce non tremò: “Voglio riportare mio figlio a casa.”
Le indagini
Seguì una teoria di tesserini, timbri, frasi preconfezionate. “Indagini”, “cooperazione internazionale”, “rimpatrio”.
Dal Ghana arrivarono notizie: una rete di frodi, promesse fasulle, provini mai esistiti. Uomini che setacciavano i sogni per farne denaro.
Awa ascoltava come da sott’acqua. Cercava solo due parole: “Tornerà. Presto.”
Quando le dissero che la salma sarebbe arrivata, il villaggio tacque. Le donne prepararono il cortile; gli uomini allinearono le sedie. Anche i bambini capirono che il gioco, quel giorno, poteva attendere.
L’aeroporto
All’aeroporto Awa vide la bara scura scivolare sul nastro e capì che l’amore deve essere più forte della morte, altrimenti non resta niente.
Un funzionario le si avvicinò: “Siamo con lei.”
Awa annuì: nel cuore non c’era spazio per altro, né rancore né gratitudine.
Sulla strada del ritorno guardò fuori: stesse strade, stesse case, ma il mondo era un altro. Pensò al primo giorno dei guanti, alle ginocchia sbucciate, alla risata dopo un rigore parato.
“Perdonami,” sussurrò a nessuno in particolare, “per non aver avuto abbastanza monete per comprarti la vita.”
Il funerale
Fu un funerale che sembrò una preghiera. Gli uomini portarono la bara sulle spalle, le donne seguirono mormorando versetti e lacrime. I teli bianchi si muovevano al vento come vele senza mare.
Davanti alla fossa, Awa abbassò la fronte. Non pianse forte: le lacrime scesero sottili, come pioggia gentile.
L’imam parlò di misericordia e giustizia: Dio vede anche quando gli uomini non vogliono vedere. Il missionario aggiunse: “Cheikh voleva difendere una porta. Ora tocca a noi difendere i ragazzi come lui.”
Un bambino depose accanto alla terra un pallone sgonfio con un “1” tracciato a pennarello. L’immagine restò sospesa, semplice e tremenda.
Quando le prime zolle caddero sulla bara, Awa tese le mani. “Aspetta,” mormorò, come se fosse tardi per la cena. Poi lasciò andare.
Il suono della terra che cade è un tamburo lento, un addio in sillabe scure.
Le voci del villaggio
Dopo il funerale la vita provò a ricominciare. La gente tornò ai campi, al mercato, ai compiti. Ma Cheikh era ovunque: sulla soglia della baracca, al bordo del campo, in certe risate improvvise di ragazzi che gli somigliavano.
Awa diventò il punto a cui tornare per dire ciò che non si sapeva dire.
“Era bravo,” mormoravano. “Ci credeva.” “Se solo…”
Un allenatore locale, cappello sgualcito e occhi lucidi, propose di intitolare il campo a Cheikh Touré. Nessuno obiettò. Una tavola di legno, due chiodi, il nome in vernice blu.
La sera dell’inaugurazione, Awa posò la mano sulla targa. “Cheikh, non so se basta,” disse.
Un ragazzino rispose senza pensarci: “Per me è giusto.”
Il vento, sottile, confermò.
Il ritorno dei giorni
Le stagioni si alternarono. Nel secco, la memoria di Cheikh ardeva come brace sotto la cenere; nelle piogge, si scioglieva in rivoli imprevisti.
Awa imparò a vivere in due tempi: prima e dopo. In mezzo, una riga che non si cancella.
Cominciò a parlare con le madri dei ragazzi che volevano partire. Non predicava paura, non tarpava le ali: raccontava.
“Chiedete nomi, documenti, certezze. Anche i sogni hanno bisogno di strade vere.”
Un’organizzazione la invitò a testimoniare negli incontri con i giovani.
“Non ho parole difficili,” disse.
“Non servono,” risposero. “Servono le sue.”
Ogni volta che parlava, sentiva Cheikh seduto poco più in là, come quando lei cucinava e lui raccontava le parate del pomeriggio.
Cheikh aveva diciotto anni. Diciotto anni sono un ponte tra due rive: l’infanzia saluta, l’età adulta non si vede ancora. Su quel ponte camminano in molti, e alcuni cadono senza colpa.
Il mondo è pieno di promesse: alcune vere, altre con sapore di ferro. È difficile distinguerle quando hai fame, quando un pallone ti fa sentire immortale, quando la parola “contratto” luccica come un diamante finto.
Ci sono uomini che vendono sogni in valigie leggere, famiglie che le aprono e dentro trovano il vuoto.
E ci sono madri che imparano a pregare due volte: per i figli che partono e per quelli che restano.
Awa non cercò colpe per proteggersi: le colpe hanno nomi, ma non colmano il vuoto. Scelse la via più dura: trasformare il dolore in luce per gli altri. Non per assolvere l’ingiustizia — quella va combattuta — ma per salvare ogni figlio che può ancora tornare.
Il campo vuoto
Al tramonto, il campo “Cheikh Touré” si allungava in ombre sottili. I ragazzi arrivavano scalzi, ginocchia impolverate; i passaggi sollevavano piccoli vortici dorati.
C’era un portiere tra loro: troppo magro, troppo serio. Stava tra due sassi con le braccia aperte, come per abbracciare il mondo.
“Come ti chiami?” chiese Awa, ferma accanto alla targa.
“Baba,” rispose senza staccare gli occhi dal pallone.
“Perché giochi in porta?”
“Perché lì posso proteggere gli altri.”
Awa sorrise. Gli porse un paio di guanti logori, quelli che Cheikh aveva lasciato nella cassa di latta.
“Sono grandi,” disse Baba.
“Crescerai,” rispose Awa.
Arrivò un tiro teso. Baba si tuffò, respinse. Un coro si alzò: “Bravo!”
Awa chiuse gli occhi: non vide più cortili o muri, ma suo figlio che rideva e la polvere che si apriva come un sipario.
Quando li riaprì, il cielo era arancio profondo. Un uccello passò alto con un grido sottile.
Awa raccolse il pallone e lo rimise in gioco.
“Ancora,” disse. “Sempre ancora.”
Ogni volta che il vento attraversa quel campo, una voce lo accompagna, tenace:
“Non smettere di sognare.”














