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Il Caffè dei Visionari non ha indirizzo. Appare solo a chi lo evoca, come un ricordo troppo vivido per essere sognato.
Quella sera era a Parigi, nel dedalo umido del Quartiere Latino.
La pioggia scendeva lenta, quasi musicale, e l’aria sapeva di carta bagnata e carbone. Alzando gli occhi scorgevo a malapena il riverbero giallo dell’insegna: Le Verbe.
Il vetro appannato rifletteva ombre in movimento, e, appena entrato, fui avvolto dal morbido calore del locale.
Il pavimento di mattonelle scure, il bancone di zinco, le pareti ingombre di libri e fotografie sbiadite — tutto emanava una armonia che non poteva appartenere a nessun luogo reale.
Dietro al bancone Ernest, dalle mani grandi, gli occhi di chi conosce troppi finali e pochi inizi, forse. Lucidava i bicchieri come se fosse un gesto rituale.
Clara, la cameriera, si muoveva in silenzio tra i tavoli: capelli raccolti, grembiule color crema, il passo leggero di chi non lascia orme.
Si raccontava che, quando Clara posava un bicchiere, un verso nasceva da qualche parte nel mondo.
Il suono del grammofono fluttuava nell’aria: ’Round Midnight, Thelonious Monk.
Poi, come richiamati da quella musica, entrarono due figure che parevano scolpite nell’ombra stessa:
Arthur Rimbaud e Ezra Pound.
Il primo giovane, inquieto, con il cappotto scuro e lo sguardo febbrile di chi ha già consumato tutto ciò che poteva bruciare. Il secondo, più maturo, i capelli ribelli e il portamento ostinato dell’uomo che si porta addosso la sua storia come un’armatura.
Si sedettero su un divano di pelle, di fronte al camino.
Io restai nell’angolo, invisibile, testimone muto.
Clara portò un bicchiere d’assenzio a Rimbaud e un caffè nero a Pound, senza che nessuno dei due glielo avesse chiesto.
Fu Pound il primo a rompere il silenzio.
…
«Tu hai bruciato tutto, ragazzo. Hai scritto Le Bateau ivre e poi ti sei dileguato nel deserto. Hai toccato il cuore della lingua e l’hai lasciata morire. Perché?»
Rimbaud sorrise, ma il sorriso gli si spense subito negli occhi.
«Perché la poesia, Ezra, non è una casa dove abitare. È un incendio. E quando brucia, non resta che cenere».
«Hai smesso di scrivere troppo presto,» proseguì Pound. Hai abbandonato il campo mentre potevi cambiare tutto.»
Rimbaud rise d'un suono basso, ironico.
«E tu non hai mai smesso di scrivere abbastanza. Hai costruito cattedrali di parole e ti sei perso nei tuoi Cantos. La poesia non salva nessuno, Ezra. Non salva neanche se stessa.»
Pound appoggiò la tazza sul tavolino, piano, come si posa una parola difficile.
«Io credo nell’ordine, Arthur. La poesia è architettura, disciplina. Bisogna dare alla lingua la precisione del metallo. Make it new — rifarla, ma con misura.»
Rimbaud si sporse in avanti, gli occhi di vetro e febbre.
«La misura è la morte del sogno. Tu costruivi cattedrali, io cercavo tempeste. Non c’è salvezza nella forma, Ezra. Solo nella vertigine. Perché la poesia non si scrive due volte. O si vive, o si muore di lei. Io ho scelto la fuga. Bisogna essere assolutamente moderni, dicevo. E la modernità, Ezra, non si misura nei versi, ma nelle vene.»
Ernest ascoltava senza ascoltare, lucidando un bicchiere che non si sarebbe mai sporcato.
Fuori, la pioggia colava lenta lungo i vetri come se volesse cancellare il mondo.
Pound accese una sigaretta. Il fumo salì dritto, come un pensiero ben costruito.
«Il caos è sterile, Arthur. Senza ritmo, la parola si disperde. Io ho cercato l’armonia nascosta, il canto che ordina. Nei miei Cantos ho costruito un tempio, un edificio di senso.»
Rimbaud lo interruppe, con voce quieta ma tagliente:
«E io, nel mio Inferno, ho imparato che il senso non esiste. Solo il bagliore. Solo la ferita. Tu volevi rifondare,» continuò «ma per costruire bisognava prima distruggere. Io ho incendiato le parole perché fossero libere. Tu le misuravi come un ingegnere che teme il caos. Ma la poesia non si teme, Ezra. Si subisce.»
Il fuoco del camino gettava lampi sulle pareti.
Per un attimo, parve che il Caffè stesso trattenesse il respiro.
Rimbaud guardava la fiamma come si guarda un ricordo, Pound il fumo come si osserva una formula.
«Ti sei taciuto troppo presto,» ribadì Pound, quasi con dolcezza.
«E tu hai parlato troppo a lungo,» replicò Rimbaud.
Un lampo illuminò per un istante i vetri del locale. Pound si piegò in avanti, come per confidare un segreto.
«Eppure, Arthur, tu sei stato il primo modernista. Tutto comincia da te. Io, Eliot, Yeats… tutti abbiamo bevuto dal tuo disordine.»
«Il disordine è l’unico ordine possibile,» replicò Rimbaud. «Tu l’hai tradotto in legge. Io volevo la febbre, non la formula.»
Poi tacquero entrambi.
Clara passò accanto al loro tavolo e lasciò un foglio bianco, come per errore. Su quel foglio, più tardi, qualcuno avrebbe scritto:
“La parole est à réinventer.”
…
Un lampo illuminò per un istante i vetri del locale.
Quando la notte cominciò a spegnersi, Rimbaud si alzò. Indossò il cappotto senza guardare Pound.
«La poesia è un viaggio, non una patria.»
Pound annuì lentamente, le mani sul taccuino.
«Eppure,» disse, «qualcuno deve disegnare la mappa.»
Rimbaud sorrise, e in quel sorriso c’era la giovinezza di tutti i poeti che non hanno fatto in tempo a invecchiare.
Si avviò verso la porta, lasciando dietro di sé un odore d’assenzio e di mare.
Il rumore dei suoi passi si dissolse nella piovosa notte parigina.
Pound restò seduto.
Scrisse qualcosa sul foglio lasciato da Clara — nessuno riuscì mai a leggere quelle parole — poi guardò il fuoco fino a quando non restarono che braci.
Ernest spense le luci, Clara raccolse i bicchieri.














