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SCRIPTA MANENT

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LETTURE SENZA CONFINI


SINISTRA, DESTRA, AVANTI - RACCONTO BREVE DI SONIA YOUSAF

Publié par Sonia Yousaf sur 30 Octobre 2025, 12:28pm

Catégories : #Racconti Brevi

Mi risveglio con il ricordo della pista: sudore, erba, l’eco che i miei muscoli ancora si aspettano di inseguire. La pioggia batte sulla finestra, paziente e decisa. La sveglia vibra finché non la spengo con il palmo della mano. Nella luce grigia, le linee del soffitto si confondono in corsie e, da qualche parte dentro di me, il corpo sussulta al rumore di una pistola di partenza che nessuno spara più.

La lama è appoggiata con pazienza sul comodino. A volte la pioggia porta ancora con sé il profumo fantasma della gomma e del fumo, l’odore dell’incidente impresso nel tempo. Prima ascolto: la pioggia tamburella come una folla che ha dimenticato il mio nome. Poi allungo la mano. Le dita trovano il carbonio freddo, la leggera tacca che ho inciso anni fa. Superstizione. Prova. Posiziono l’arto. Il blocco risponde, netto e definitivo. L’equilibrio ritorna in piccole negoziazioni: carne contro acciaio, acciaio contro pavimento, l’incavo che tira la pelle già sensibile. È come una lingua che un tempo parlavo fluentemente e che ora devo tradurre a me stesso.

Accanto alla porta ci sono le vecchie scarpe da ginnastica, lo stesso modello di sempre, con le strisce blu opacizzate dal tempo. Il rituale mi dà sicurezza. Prima la sinistra, poi la destra. Sempre.

Un tempo attaccavo citazioni motivazionali sopra il mio letto. Una volta, su una c’era la calligrafia di qualcun altro. Nessuna di esse menzionava protesi che scricchiolano.

Il telefono vibra sul bancone: il mondo continua a seguire il suo programma senza di me. Senza pensare, infilo la scarpa destra e stringo il laccio. Mi fermo. La sinistra rimane intatta accanto al piede protesico.

Per un attimo, il mio battito cardiaco segue il ritmo della pioggia.
Il panico sale, veloce come il calore. Mi tolgo la scarpa destra, ordinaria e sbagliata nella mia mano, e la fisso come un credente fissa un rosario rotto. Sinistra, lentamente. Deliberatamente. Come se potessi riportare la mattina in equilibrio. Quando mi alzo, l’aria sembra carica: il silenzio dopo un fulmine, prima che il mondo decida se spezzarsi o continuare.

Prima dello scontro, il mondo aveva confini su cui potersi appoggiare. Le corsie erano nette fratture bianche sul verde; sapevo dove posare ogni passo, dove spendere e dove risparmiare. Ero una cometa di una piccola città, così veloce che i giornali venivano agli allenamenti per fotografare il sudore, come se il sudore fosse la prova del destino.

Il rituale iniziò come una sfida. Al secondo anno, un ragazzo della squadra disse: «Prima la scarpa sinistra, altrimenti gli dèi si confondono». Lui scherzava. Io no. Indossai la sinistra e sentii la giornata andare al suo posto come un cassetto che si chiude. Quel pomeriggio corsi il mio record personale, sentii il mio nome risuonare dagli altoparlanti metallici e tornare un secondo dopo, echeggiando più forte. Da allora, indossare prima la scarpa sinistra non fu più un rituale: era una garanzia.

Mia madre veniva a vedermi con un thermos di caffè e una sedia pieghevole che non apriva mai. Rimaneva in piedi per ogni giro, con la bocca serrata e gli occhi lucidi come la pioggia. Aveva un modo di guardarmi che mi faceva sentire già al traguardo. Quando vinsi il campionato statale, pianse sulla mia maglietta e mi disse: «Ho sempre saputo che il mondo avrebbe dovuto fare spazio a te». Pensavo che fosse questo il significato della vittoria: il mondo che si faceva da parte.

Allora c’era una ragazza. Claire. Lavorava part-time per il dipartimento di atletica, distribuiva pettorali, appuntava spille da balia su pannelli di schiuma e mi guardava come se la domanda avesse trovato risposta. Ci baciammo una volta dietro le tribune mentre la banda provava nel parcheggio, con i corni che sembravano oche in disaccordo con l’inverno. «Allacci prima la scarpa sinistra», disse, e quando annuii, rise sul mio collo. «Sei ridicolo». «Sono veloce», le dissi. «È piuttosto ridicolo», rispose. Mi sembrò una benedizione.

La mattina dell’incidente l’aria aveva un sapore metallico, come una moneta tenuta troppo a lungo in bocca. La pioggia minacciava all’orizzonte. Gli allenatori guardavano in alto, lo staff del campo era nervoso per i fulmini. Corremmo comunque. Correvamo sempre comunque. Allacciai prima la sinistra, poi la destra. Toccai la protuberanza ossea sotto il ginocchio e mi dissi che era fortuna.

La pistola sparò. Il corpo diventò una miccia, il suono divenne vento. Le corsie erano corde che mi tiravano avanti e la folla era un unico animale con respiro e denti. Ero lì, ardente, e poi il mondo si piegò a metà. Pneumatici che stridevano, gomma, panico, vetri… Un automobilista, scambiata la strada di accesso per un parcheggio, sfondò la recinzione e finì sulla curva. Sembrava lento come uno spot pubblicitario. Mi sembrò un tradimento.

Ricordo il sapore del ferro. Un compagno di squadra che urlava. Mia madre che si arrampicava sulla ringhiera, cadeva, poi si arrampicava di nuovo. Guardavo in basso e non capivo quale parte fossi io. Il resto è una porta che sbatte.

Gli ospedali ti insegnano una nuova grammatica: il dolore come verbo, la speranza come qualcosa di misurato e registrato. La guarigione è un corridoio che impari a percorrere, applaudito per aver raggiunto una sedia. Le infermiere mi chiamavano tesoro, campione, eroe. La gente mi inviava biglietti con immagini di soli indecenti. Gli allenatori venivano a trovarmi e dicevano «coraggioso» a voce troppo alta. Claire mi teneva la mano e non sapeva dove posare lo sguardo.

La prima volta che mi alzai con una protesi, la stanza applaudì. Sorrisi perché è quello che le stanze esigono dagli uomini che sopravvivono. Più tardi, in privato, premessi la fronte sulla giuntura dove la pelle incontrava l’incavo, la pelle irritata dall’attrito della giornata, pruriti fantasma che scintillavano come elettricità statica nel polpaccio che non c’era più. Sussurrai all’arto come a un cane da convincere a restare. Allacciai prima la scarpa sinistra, anche allora, anche su un piede che non sentiva più i lacci. Per sicurezza, mi dissi. O forse per elegia.

Quando finalmente tornai a casa, l’appartamento mi parve più piccolo. Il frigorifero ronzava come un vecchio paziente e la finestra ricordava come ricevere la pioggia. Appesi le mie medaglie sopra il comò. Le scarpe a strisce blu vivevano vicino alla porta come una coppia che non condivide più segreti. La vita continuava. È ostinata dove meno te lo aspetti.

A mezzogiorno di oggi la pioggia è passata da conforto a rumore di fondo. A pranzo, il panino sa di cartone umido. Mi chiedo se il dolore scada come una medicina vecchia, se ci sia una data stampata da qualche parte che ho già superato.

Nella sala pausa verso del caffè amaro, troppo leggero per avere importanza. Il mio gomito urta la tazza. Questa gira su se stessa e si rompe, schizzando una macchia marrone sulla scarpa destra.

Mi blocco. Un attimo di nulla. Poi Claire della contabilità — un’altra Claire, perché l’universo ama gli scherzi di cattivo gusto — si inginocchia con dei tovaglioli. «Va tutto bene», dice piano, come se parlasse a una ferita.

Sento la gentilezza nascosta sotto la pietà. «No», dico, più secco di quanto vorrei. «Non va bene». Il silenzio si fa così intenso che sento il battito del cuore nelle orecchie. Il moncone pulsa una volta, avvertimento sordo che il corpo invia quando il cuore non ascolta. Mi pulisco comunque, goffamente; la protesi raschia le piastrelle come un rimprovero, l’invaso morde la cucitura, le dita fantasma si arricciano contro un pavimento che non toccheranno mai. Quando alzo lo sguardo, lei è già in piedi, già se ne va, i tovaglioli umidi schiacciati nel pugno.

I finestrini dell’autobus si appannano durante il viaggio di ritorno, trasformando la città in un’immagine statica. A un semaforo, una donna con un cappotto rosso ride al telefono. Il suono attraversa la pioggia come qualcosa di ancora vivo.

L’appartamento profuma di tessuto bagnato e caffè vecchio. Il frigorifero emette il suo ronzio costante. Non riesco a raggiungere il gancio con le chiavi e le lascio cadere dove sono. Attendo che la giornata si esaurisca nel mio corpo.

Ma non succede.

Nel bagno buio, un lampo mi divide in parti: cicatrice, guancia, la sfocatura dove finisce la gamba. Premo il palmo sul vetro come se la superficie potesse restituirmi qualcosa. Per un attimo, il lampo mi restituisce un uomo diverso: spalle dritte, entrambe le gambe sotto di lui, il volto delle fotografie.

La luce se ne va. E anch’io.

Il vento fa tremare il vetro. Il ronzio cresce fino a diventare l’unica cosa che si sente. Sollevo una stampella e la lancio. Il vetro risponde: pioggia acuta, trofei che cadono, una cornice che si rompe lungo la giuntura. Poi nient’altro che respiro, affannoso dentro, affannoso fuori. La stanza è della stessa dimensione eppure in qualche modo più piccola. La polvere delle cornici in frantumi si attacca al sudore sugli avambracci, piccole stelle che non riesco a scrollarmi di dosso.

Mi inginocchio tra i frammenti. Un piccolo corridore dorato giace decapitato ai miei piedi, a metà corsa, incompiuto. Lo raccolgo e il metallo è più freddo di quanto dovrebbe. Una risata mi si spezza in gola. Appoggio la statuina, ora con delicatezza, come se potesse ancora sentire la corsa.

Di proposito, allaccio prima la scarpa destra. Il battito si interrompe, in attesa di una punizione. Non succede nulla. Il silenzio che segue non è approvazione: è più simile a una porta lasciata socchiusa.

Allaccio la sinistra. Indosso la giacca. Esco.

Il parco è scivoloso e nero sotto gli olmi. Il respiro si dissolve nell’aria. Un jogger mi supera e mi saluta con un cenno del capo, come i veterani che si riconoscono senza chiedersi quale guerra abbiano combattuto. Assumo una posizione che non assumevo da anni e lascio che sia il corpo a decidere. I primi passi sono goffi, la lama sbatte, l’altro piede impara il ritmo di uno sconosciuto. L’invaso tira, il prurito fantasma si accende, ma tengo la linea. Sto quasi per cadere in una pozzanghera, agitando le braccia, ma poi non succede.

Continuo ad andare avanti.

Il respiro infiamma il petto. I muscoli protestano. Io continuo comunque. La lama emette un leggero clic a ogni battito del cuore, come un applauso intrappolato in un pugno. La folla nella mia testa è solo il tempo. La pistola è solo tuono. Il percorso mi porta avanti e poi mi riporta indietro.

A casa mi fermo in cucina e ascolto il ronzio costante del frigorifero, come un mondo troppo testardo per notare chi manca. È il metronomo in cui vivo ora. Respiro una volta, solo per vedere se ne sono ancora capace. Non è grazia, ma è già qualcosa.

I giorni si susseguono come legna da ardere: lavoro, pioggia, sonno e così via. Il rituale continua. Prima la scarpa sinistra. A volte lo metto alla prova, allacciando prima la destra per vedere se il cielo si aprirà. A volte lo desidero. C’è un sollievo nella punizione, una sorta di ordine. Ma il mondo si rifiuta di benedirmi o maledirmi a comando. È disobbediente, in questo senso.

Giovedì mi chiama il mio allenatore. Non sentivo la sua voce da anni. Ha ancora quella tonalità roca, quell’urgenza degli uomini che pensano che il corpo sia una macchina cui bastano le istruzioni giuste.

«Come stai, ragazzo?», chiede.

«Bene», rispondo.

«Tua madre dice che lavori troppo».

Fa una pausa, aspettando una sincerità che non gli concedo. «Sabato facciamo una riunione», dice. «La vecchia squadra. Solo barbecue e bugie. Dovresti venire».

Immagino il campo. La recinzione riparata e la vernice nuova, come se cancellare fosse lo stesso che guarire. «Non posso», rispondo. «Lavoro».

«Sei sempre stato un pessimo bugiardo», dice, e riattacca.

Quella notte faccio di nuovo lo stesso sogno. Sono ai blocchi: dita aperte, fianchi alti, ogni respiro contato come denaro. La pistola spara. Primo passo. Secondo. Terzo. La strada si apre, ma questa volta salto pulito sopra il cofano. Mi sveglio ansimando, con il vecchio sapore di ferro del traguardo ancora in bocca.

Sabato ci vado. Mi dico che sto solo cercando un luogo per la corsa di beneficenza di 5 km che l’ufficio sta organizzando. Le bugie sono più facili quando hanno uno scopo.

La strada di accesso è bloccata da una catena di plastica. Sulle gradinate, i miei vecchi compagni ridono con quel particolare tempo passato di chi ha superato i propri miti. L’allenatore è lì, a braccia conserte, il sole che trasforma i suoi capelli in acciaio.

Resto abbastanza lontano da non diventare un progetto. Da qui posso vedere la curva. La vernice è brillante come una ferita.

«Ehi», dice qualcuno: è Claire, la prima, non quella dell’ufficio. Il tempo ha fatto ciò che fa: ha smussato alcuni spigoli, ne ha affilati altri. Tiene in braccio un bambino impegnato a smontare un cracker. «Pensavo fossi tu», dice.

«Eccomi», riesco a dire.

Lei lancia uno sguardo alla mia gamba con quel movimento educato e studiato degli occhi. «Ti trovo bene», dice, poi ride. «Scusa. Non so mai cosa dire che non sia sbagliato».

«Tanto vale essere gentilmente in errore», dico. «Tutto il resto lo è comunque».

Restiamo a guardare un gruppo di matricole ai blocchi. «Corri ancora?», chiede.

«A volte», rispondo.

«Eri veloce».

«Ero», concordo. La parola mi sembra un piccolo funerale.

L’allenatore mi vede. Mi saluta con la mano, ma non mi chiama. Alzo una mano; basta così.

Quando la griglia fuma e le storie iniziano a ripetersi, percorro la curva da solo. La gomma ricorda i piedi. La mia fa quel che può. Mi fermo dove l’auto ha distrutto il mondo. Ora non c’è più cicatrice: solo aria che sembra leggermente contusa.

Non ho intenzione di correre. Lo faccio comunque.

Due passi, poi un terzo. La lama trova un ritmo goffo ma reale, l’articolazione tira la pelle, le dita dei piedi fantasma si piegano a ogni falcata. Arrivo a venti metri, forse venticinque, prima che i polmoni si ribellino. Il campo distoglie educatamente lo sguardo. Mi chino sulla linea, mani sulle ginocchia, aspettando che qualcosa dentro di me decida se fermarsi o continuare.

Una mano mi si posa sulla spalla. È l’allenatore. «Non sei obbligato», dice, e non si riferisce alla corsa. «Non lo sei mai stato».

Si sbaglia, ma solo rispetto a ciò che conta per me.

Annuisco, mi raddrizzo e faccio una battuta sui miei tempi da quarantenne. Lui ride, con compassione nella voce. Quando me ne vado, non saluto.

La 5K di beneficenza si organizza più in fretta del previsto. Le Risorse Umane apprezzano la simmetria di tenerla su una pista. Il marketing la chiama «Sinistra, destra, avanti». Rido troppo forte quando mi propongono di fare un discorso.

Il giorno della prova arrivo presto. Le corsie brillano come vetro bagnato. Un addetto alla manutenzione mi chiede se mi sono perso; gli dico che partecipo alla gara. Mi fa cenno di passare.

Cammino lungo la curva. Una pozzanghera brilla sul bordo della corsia quattro. L’acqua riflette il cielo in un modo che ti fa sentire come se potessi entrare in un altro mondo.

Non c’è nessuno in giro. Assumo una posizione che non assumevo da anni.

«Io», dice il corpo.

«Io», rispondo.

Corro.

Cinque passi. Dieci. La lama scatta al ritmo del cuore, provoca prurito fantasma e una pressione di protesta nell’incavo. L’altro piede ricorda, più lento ma disponibile. Il respiro infiamma il petto. La curva arriva come una domanda. Mi ci appoggio, come quando ti fidi di qualcuno per la seconda volta. Mi fermo perché ho deciso di farlo, e già questa è una vittoria.

Nella pozzanghera, per un secondo, appare il ragazzo a due gambe: tutto fame e velocità. Poi l’acqua increspa e lui scompare. Al suo posto, io. Una sola carne, un solo carbonio. Non sono arrabbiato per la sostituzione.

La voce di mia madre affiora dalla memoria: «Mi sono alzata in piedi, e quella è la parte per cui nessuno ha applaudito».

Allaccio prima la scarpa destra. Non succede nulla. Il silenzio che segue non è approvazione. È una stanza.

Il giorno della gara: tende, pettorali, chiacchiere. Le Risorse Umane stanno già piangendo, e per una volta sembra sincero. I bambini sfrecciano come piccole comete. Qualcuno mi ringrazia per essere «un’ispirazione», come se avessi inventato il sopravvivere.

Quando mi chiamano al microfono, dico soltanto: «Una volta ero veloce. Poi non lo sono più stato. Oggi sto cercando di essere qualcos’altro». La folla applaude, grata per la semplicità.

Suona il clacson. I corridori si lanciano in avanti. Mi faccio da parte e li guardo andare, il rumore dei passi che ricomincia come la pioggia.

Più tardi, quando le medaglie sono state consegnate e il campo è vuoto, percorro le corsie un’ultima volta. La pozzanghera è scomparsa. Il sole ha fatto il suo dovere.

Chiamo mia madre. «Hanno finito», le dico. «Erano felici. Domani saranno indolenziti».

«E tu?», chiede.

«Sono rimasto in piedi», rispondo.

Sull’autobus che mi riporta a casa, la città mi circonda. Ordinaria, indulgente. Alla mia fermata salgo le scale più lentamente di quanto vorrei e più velocemente di quanto temessi. Il frigorifero ronza quando entro, costante come sempre, come un mondo troppo testardo per notare chi manca.

Mi tolgo le scarpe e le tengo in mano per un momento. Poi le metto una accanto all’altra vicino alla porta, destra e sinistra, uguali per una volta.

Nello specchio incontro l’uomo che mi sostiene. Non è il ragazzo che ero, né l’eroe che la gente applaude. È un lavoro in corso. Tocco la giuntura dove la pelle incontra l’incavo, non come un compromesso, ma come un saluto.

Fuori ricomincia a piovere. Allaccio le scarpe senza guardare: a volte prima la sinistra, a volte la destra, ed esco in un mondo che continua a fare spazio.

Non è ancora grazia. Ma questa volta è sufficiente.

 

Traduzione di Angelo Marcottfi

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