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SCRIPTA MANENT

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LETTURE SENZA CONFINI


L'UOMO ALLA FINESTRA DI TOTEN STREET - ROMANZO BREVE DI TODD SCPECK

Publié par Scott Speck sur 4 Novembre 2025, 18:42pm

Catégories : #Racconti Brevi

Sono le tre del mattino.
La strada sottostante è tranquilla, deserta. Eppure non riesco a dormire.

«Ci vogliono mesi per abituarsi al rumore della città», mi aveva detto il padrone di casa quando ho firmato il contratto d’affitto.
Stasera, però, a quest’ora, è più silenziosa della campagna in inverno.

Dall’altra parte della strada, file di case in mattoni rossi si estendono in lontananza, i comignoli fumano. Una colonna nera come il carbone oscura la guglia dell’Empire State Building, mentre la cima del Chrysler Building resta visibile.

Non merito un posto tutto mio, così lussuoso. Pagato interamente da lui.

Mi avvicino alla finestra spoglia, con i vetri a bifora che si estendono quasi dal pavimento al soffitto. Il mio respiro si condensa sul vetro. Poi smetto di respirare. E ascolto.
Il mio cuore non batte.

C’è un silenzio di tomba, quattro piani sopra Toten Street.
Appoggio una mano sul petto, sulla flanella a righe. Niente.

La mano vola al collo: due dita sulla carotide. Ecco, grazie a Dio: lento e regolare, nonostante l’ansia. Certo che batte.
Inspiro, mi fermo, poi riprendo a respirare.

Fuori fa un freddo tagliente.
Ormai dev’essere congelato.
Un lampione crepita in cima a un palo inclinato. Qualcuno, con un cappotto scuro e un cappello, vi è appoggiato con indolenza.

Accanto a me, sul sedile consunto della poltrona, c’è una preziosa prima edizione — dorso in pelle spessa, incisioni dorate — de L’origine dell’uomo di Charles Darwin.
Il volume mi attrae e mi deride allo stesso tempo.
Era il suo tesoro. L’unica cosa che avevo conservato dal suo appartamento, dopo aver pulito ogni superficie che avevo toccato.
E le manopole in ottone del suo letto, così lucide da riflettermi...

Mi siedo sul letto, lasciando che il classico del 1871 mi pesi sul senso di colpa.

Avevamo bevuto troppo, quella sera.
Avrei dovuto chiamare un taxi.

Mezz’ora dopo, attraverso una nebbia compressa e liquida, il mio paraurti sfiorò una Buick, frantumando il faro sinistro e facendo uscire il conducente che urlava mentre io acceleravo e scomparivo nel buio.
Quattro isolati più avanti superai uno stop, persi il controllo sul ghiaccio nero e finii contro un palo.
Ci facemmo piuttosto male, e lui era furioso.

«Maledizione! Lunedì ho le arringhe finali, e adesso questo?!»

Nonostante il radiatore che perdeva, la mia Triumph riuscì ad arrivare fino alla sua grande casa di mattoni rossi.
Lo aiutai a entrare e a sedersi sul divano di pelle. Poi presi una bistecca fredda dal frigorifero e gliela misi sulla ferita alla fronte.

Sono le quattro del mattino.
Due Butisol e quattro sorsi di Old Forester, e finalmente mi addormento.
Spengo la lampada e tiro le coperte fredde fino al mento.

Sogno.
Una foresta nera, spoglia, senza foglie. Corro tra gli alberi, i rami mi graffiano il viso. Qualcosa mi insegue: so che è lui.
Mi lancio fra i tronchi bagnati dalla pioggia. Cambio direzione più volte, finché non lo semino. Mi appoggio a un albero, ansante.

Un crepitio dietro di me. Mi volto — e lo vedo.
Insanguinato, con un sorriso a forma di falce, gli occhi come vetro nero liquido, la parte sinistra del cranio sfondata.
Poi ride. Prima una risatina, poi una risata isterica.

Mi sveglio alle dieci. La luce che filtra dalla finestra è grigio piombo.
Dal basso, rombano i motori, suonano i clacson. Rumore, benedetto rumore.

Mi do malato, ingoio quattro aspirine e torno a dormire fino a mezzogiorno.

Poi vado da Bert per una colazione tardiva. Uova, pancetta, caffè.
Fumo, piatti, mormorii.
Sfoglio il
Times: «Importante avvocato newyorkese ancora disperso».

Mi gelo.
La polizia non ha indizi, dice l’articolo.

Uscendo, inizia a nevicare.
Un vento gelido mi sferza il viso. Strizzo gli occhi, guardo a terra. All’angolo, attendo che il traffico si fermi.
Alzo lo sguardo.

Dall’altra parte della strada, un uomo con trench grigio scuro, cappello Stetson, è appoggiato a un cartello metallico.
La neve non si posa su di lui, il suo cappotto non si muove nel vento. E mi fissa.

Alza il cappello in segno di saluto.
La parte sinistra della testa manca. Il viso è insanguinato.
Le spalle sobbalzano, come in uno spasmo. Sta ridacchiando.

Attraverso la strada di corsa.

Nel mio palazzo, nell’ascensore bloccato tra il secondo e il terzo piano, c’è un uomo vestito di grigio. Mi guarda, immobile, le mani strette alle sbarre.
Prendo le scale, la nausea mi assale.

Al quarto piano, due uomini mi attendono davanti alla porta. Cappotto, cappello, sigarette accese.
«Signor Poe?»
Annuisco.

«Detective Peterson. E lui è Cummings. Omicidi. Possiamo parlare nel suo appartamento?»

Le mani mi tremano sulle chiavi.
«Questa serratura è davvero difficile da aprire», mormoro.

Appena la porta si apre, sento voci forti provenire dal soggiorno. Mi precipito avanti — ma è solo la televisione accesa a tutto volume.
Un vecchio film poliziesco in bianco e nero.

Sul piccolo schermo curvo ci siamo io e Henry.
Litighiamo, nudi.

Provo a fuggire, ma i detective mi afferrano.

L’ambientazione è inequivocabile: il salotto di Henry.
Vedo il vetro frantumarsi, sento il tonfo dei nostri corpi, la voce di Henry che mi dice che mi avrebbe tagliato fuori.
Poi il rumore metallico dell’attizzatoio che afferro dal camino.
E i colpi. Il secondo. Il terzo.

Quando apro gli occhi, Henry è lì, in piedi accanto alla televisione.
Nudo.
Il sangue gli gocciola dal mento e macchia il parquet.

Sorride. Si trattiene. Poi inizia a ridere.
Una risata che cresce, riempie la stanza, fa tremare i vetri.

Io cado in ginocchio e vomito.

 

Traduzione: Angelo Marcotti


 

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