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Muovendosi nella sua stanza, Joe cercò di fare il meno rumore possibile. Allacciò gli stivali, poi si avvicinò in punta di piedi al letto. Osservò il viso di Nancy mentre dormiva.
Vorrei poter restare, ma il lavoro…
Si chinò e le diede un bacio leggero sulla guancia.
Ogni mattina, prima di uscire, gli piaceva assicurarsi che nella camera di sua figlia fosse tutto a posto. Anche al buio, le pareti rosa acceso riflettevano la personalità vivace della piccola Melissa. Una volta visto il suo petto alzarsi e abbassarsi nel sonno, poté uscire tranquillo.
Chiuse a chiave la porta di casa e si voltò verso l’auto. Ma davanti a sé non trovò il vialetto: era in un corridoio scarsamente illuminato. Il tappeto aveva un motivo strano che gli dava fastidio agli occhi, e solo una delle tante luci al soffitto era accesa. Proiettava sul pavimento un bagliore bianco-azzurro innaturale.
L’aria era umida, impregnata di odore di candeggina.
Dove mi trovo? Cosa sta succedendo?
Si girò verso la porta, ma non c’era più. Al suo posto, una porta bianca e pulita con un numero al centro: 7.
Questo non è il mio indirizzo…
Il cuore di Joe prese a battere forte mentre guardava le sue mani: erano rugose, avvizzite. Cercò di aprire la porta, ma non ne aveva la forza.
«Salve? C’è qualcuno?» gridò nel corridoio vuoto, trascinandosi lungo il corrimano di plastica.
Una donna sconosciuta apparve all’angolo.
«Joseph, cosa ci fa qui fuori?» chiese con voce dolce, ma con un velo di stanchezza.
«Chi è lei? Dove sono?»
«Sono io, Kim.» Posò una mano sulla sua spalla. «La riporto nella sua stanza.»
Joe si ritrasse.
«Dov’è casa mia? Devo andare al lavoro. Dove sono Nan e Melly?»
«Sei a casa, Joseph», rispose lei, aprendo la porta.
La stanza gli sembrava familiare, ma non era la sua casa.
«Perché conosco questo posto?» mormorò guardandosi intorno.
Il riflesso nello specchio lo colpì come una fitta. Si voltò verso il badge della donna: Kimberly – RN – Infermiera responsabile.
«Com’è potuto succedere? Quanti anni ho, Kimberly?»
«Chiamami Kim», disse lei, con la pazienza di chi ha già avuto quella conversazione molte volte. «Hai ottantacinque anni, Joseph.»
Joe scosse la testa.
«No, ti sbagli. Sono appena uscito di casa, andavo al lavoro.»
Sedette sulla poltrona reclinabile, modellata sul suo corpo, e la indicò con un dito tremante.
«È opera tua. Mi hai rapito, o qualcosa del genere.»
Kim si inginocchiò accanto a lui.
«So che è difficile, ma hai l’Alzheimer. Sei un paziente del Restful Oaks.»
Le parole lo ferirono. Quel nome gli suonava familiare. Kim cercò di tranquillizzarlo: «Perché non ti riposi un po’? Ti porto qualcosa da mangiare.»
Joe si appoggiò allo schienale. «Riposerò qui un minuto, poi torno da Nan e Melly.»
Quando si rialzò, sentì Kim parlare al telefono. Ne approfittò per fuggire lungo il corridoio, trascinandosi con fatica. Le porte numerate scorrevano accanto: 6, 5… una senza numero.
Quella deve essere l’uscita.
Aprì la porta e…
«Eccoti qui. Abbiamo bisogno di te!»
Nancy gli veniva incontro in un elegante abito blu.
«Si tratta di Mel, si è chiusa dentro e non vuole uscire. Dice che parlerà solo con te.»
Joe la seguì fino a una grande porta di legno. Dietro, la voce di un prete frustrato.
«Melly, tesoro, sono papà. Posso entrare?»
Dentro, sua figlia adulta, in abito da sposa, con le lacrime che scioglievano il mascara. Joe la abbracciò forte.
«Andrà tutto bene, piccola mia.»
Sedettero insieme, tra il profumo di fiori e la luce colorata della vetrata.
«Ho paura, papà. E se stessi commettendo un errore?»
Joe le prese la mano.
«È normale avere paura. Ma quando ami davvero qualcuno, lo senti nel cuore. Lo sai e basta.»
Melissa lo abbracciò.
«Grazie, papà.»
Joe sorrise. «Qualunque cosa tu decida, ti sosterrò.»
La salutò con orgoglio. «Ti voglio bene, tesoro.»
«Ti voglio bene anch’io, papà.»
Quando uscì dalla stanza, Nancy e Melissa erano scomparse. Si ritrovò nel corridoio, urlando e piangendo. Spinse la porta d’uscita, ma non si apriva. Picchiò sulla tastiera accanto, fino a farsi sanguinare la mano.
«FATEMI USCIRE!»
Kim apparve e lo trovò in lacrime. Lo calmò e lo riportò nella sua stanza.
Più tardi, Joe si ritrovò altrove: in un ospedale, luminoso e pieno di vita.
Nancy gli porse dei fiori.
«Puoi tenerli per me?»
Sulla carta c’era scritto: Congratulazioni alla mamma e al bambino!
Entrarono nel reparto maternità. Sul letto, Melissa cullava un neonato.
«Vi presento il piccolo Joe», disse raggiante.
Nancy la abbracciò; Joe, con gli occhi pieni di lacrime, prese in braccio il nipotino.
«Ha il mio nome?»
«Spero che un giorno possa essere un uomo buono come te.»
Joe la baciò sulla fronte. Poi andò in bagno, si asciugò gli occhi… e quando uscì, era di nuovo nella stanza 7.
Crollò a terra in lacrime.
Il mattino seguente, chiese a Kim di poter uscire con Sarge, il veterano conosciuto il giorno prima.
Lei lo guardò con dolcezza:
«Joe… Sarge è morto sei mesi fa.»
Joe rimase immobile. «Ma abbiamo parlato ieri.»
Kim lo abbracciò.
«Era un buon amico, fino alla fine.»
«Ho paura», sussurrò lui.
Lei lo strinse più forte.
Poi cercò di rincuorarlo:
«Stasera verrà Nancy a cena con te.»
Gli occhi di Joe si illuminarono.
«Davvero?»
Quando la vide arrivare, con una margherita in mano, fu di nuovo giovane.
Erano al loro tavolo nel piccolo ristorante italiano. Lei indossava un vestito nero a pois; lui il suo vecchio abito gessato.
«Nancy,» disse inginocchiandosi, «mi renderesti l’uomo più felice del mondo? Vuoi sposarmi?»
«Sì, per sempre sì», rispose lei.
Joe le infilò l’anello al dito. Cercò di rialzarsi, ma le gambe tremavano. Kim gli tese una mano, aiutandolo. Guardò Nancy: la stessa donna, con il volto segnato dagli anni ma ancora meravigliosa.
Le baciò la mano, vedendo l’anello consumato dal tempo.
«Grazie per avermi reso l’uomo più felice che sia mai esistito», disse.
«Ti amerò per sempre.»
Traduzione: Angelo Marcotti














