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Nonostante la centralità del suo pensiero per la comprensione dei meccanismi contemporanei della finanza globale, Michael Hudson rimane pressoché sconosciuto in Italia: nessuna delle sue opere principali è stata tradotta. Eppure, il suo contributo è decisivo per analizzare il ruolo del debito come strumento di potere — un mezzo attraverso il quale i creditori e la rendita riescono a esercitare un controllo sistemico sugli Stati e, di conseguenza, sull’intera società.
In un precedente contributo ho sostenuto la necessità di elaborare un nuovo anticapitalismo. Aggiungo qui che esso non dovrebbe ripetere l’errore dell’esperienza sovietica — diversamente dalla Cina contemporanea — che individuava la radice del problema nella presenza del mercato e delle imprese private. Hudson, come l’ultimo Giovanni Arrighi (Adam Smith a Pechino), sottolinea che il nodo centrale non risiede nel mercato in sé, ma nella subordinazione della politica alla finanza, ovvero nella perdita della funzione regolativa dello Stato a vantaggio del potere dei creditori.
Hudson definisce la rendita finanziaria come l’antitesi della creazione di valore reale, che avviene invece nella produzione industriale e commerciale. La rendita cresce non attraverso l’innovazione o l’aumento della produttività, ma tramite spoliazione: l’appropriazione di ricchezza mediante il debito e la speculazione.
Come osserva anche David Harvey, tale processo ha natura parassitaria: la finanza si nutre del corpo produttivo della società fino a condurlo, metaforicamente, alla morte — un fenomeno che Hudson descrive con efficacia nel saggio Killing the Host.
Uno degli aspetti più originali del lavoro di Hudson è l’aver mostrato come il debito rappresenti un problema antico quanto la civiltà stessa. Dalle società sumere e assire fino al mondo greco-romano, il debito è stato uno strumento di controllo sociale.
Hudson e David Graeber, che ha divulgato questi temi nel celebre Debt: The First 5000 Years, hanno evidenziato come la periodica cancellazione dei debiti (il jubilee) fosse una pratica istituzionale necessaria a preservare la coesione sociale e impedire la concentrazione di potere economico nelle mani dei creditori.
La rovina di Roma offre un esempio paradigmatico: il potere dei grandi proprietari terrieri, rafforzato dall’indebitamento della plebe e dei popoli italici, minò la base economica e politica della Repubblica. Il cristianesimo primitivo, rilanciando il messaggio di remissione dei debiti già presente nelle tradizioni sumere e bibliche (cfr. Levitico), reinterpretò tale principio in chiave universale, trasformandolo in una religione dell’amore e dell’uguaglianza capace di attrarre le masse impoverite dell’Impero.
Il principio, per dirla con Gianfranco La Grassa, della “ricorsività storica” — tutto torna, ma in forma diversa — si manifesta oggi nel ritorno del potere dei creditori.
A differenza dell’antichità, tuttavia, la finanza contemporanea non fonda il proprio dominio sul possesso della terra, bensì sul controllo dei capitali, nati dalla produzione industriale e poi autonomizzati.
Attraverso il debito, il potere finanziario assoggetta non solo le popolazioni, ma anche gli Stati sovrani, generando una forma di imperialismo del credito che si traduce, sul piano geopolitico, in una crescente tendenza verso il conflitto sistemico.
Hudson sostiene che nessuna riforma graduale potrà scardinare tale struttura: l’unica via d’uscita consisterebbe in una rivoluzione o, più verosimilmente, in un profondo shock storico. Guardando al passato, egli prevede che solo dopo una nuova catastrofe globale — forse una guerra, forse un collasso economico — potrà emergere un ordine alternativo capace di ricondurre la finanza entro limiti sostenibili.
Un precedente, seppur temporaneo, si ebbe nel secondo dopoguerra: le misure di contenimento della speculazione e del potere finanziario durarono fino agli anni Settanta, quando la fine della convertibilità del dollaro in oro sancì il ritorno del “genio della finanza” nella sua forma più aggressiva.
In ultima analisi, la riflessione di Hudson ci obbliga a riconsiderare il debito non come categoria economica neutra, ma come dispositivo di dominio politico e antropologico. Comprendere la storia del debito significa, oggi come ieri, comprendere la struttura stessa del potere.














