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di Angelo Marcotti
Da più di un secolo viviamo sotto un nuovo catechismo, e pochi se ne accorgono.
Non ha altari né sacerdoti vestiti di nero, ma laboratori e cattedre, voci che parlano in nome della Scienza come un tempo si parlava in nome di Dio.
Ci ripetono che la vita nasce dal caso, che l’uomo discende da un primate distratto, che l’universo è un gigantesco errore ben riuscito.
E noi, timorosi di apparire ingenui, abbiamo imparato a crederci.
Il caso come divinità, la selezione naturale come provvidenza, il gene come spirito.
È la nuova religione dell’Occidente: la teologia del nulla, che ha sostituito l’antico mistero con un algoritmo biologico.
Il mondo, ci dicono, non ha scopo.
Eppure — guarda un fiore, guarda un occhio, guarda il battito di un cuore — tutto in esso sembra cantare un ordine, una proporzione, una grammatica segreta.
Come se la materia ricordasse qualcosa che noi abbiamo dimenticato.
Ma l’uomo moderno non sopporta l’idea del limite.
Preferisce pensarsi frutto del caso piuttosto che figlio di un disegno.
Perché se esiste un disegno, esiste anche una misura, una responsabilità, un dovere.
E l’uomo di oggi non vuole rispondere a nulla, se non a sé stesso.
Così, passo dopo passo, il darwinismo è diventato l’evangelo del narcisismo scientifico: una liturgia che celebra il nulla come principio e l’istinto come morale.
Un universo dove tutto è meccanico, anche l’anima.
I nuovi sacerdoti del pensiero ci dicono che tutto ciò che non si misura non esiste.
E allora il mistero scompare, la coscienza si riduce a scarica elettrica, l’amore a reazione chimica, la verità a convenzione statistica.
Ma la scienza, quella vera, nasceva per interrogare il mistero, non per abolirlo.
Il problema non è Darwin, ma il darwinismo come fede:
non più un’ipotesi, ma una clausola di pensiero obbligatoria.
Chi osa dire che la vita è troppo ordinata per essere casuale,
che la complessità del DNA somiglia più a una lingua che a un errore, viene subito espulso dal tempio, accusato di eresia contro il dio Caso.
Abbiamo costruito un mondo senza vertigine.
Abbiamo espulso il divino, convinti di liberarci dalla superstizione,
e ci siamo ritrovati schiavi di un’altra: quella della certezza senza senso.
Non c’è più mistero, e quindi non c’è più profondità.
Non c’è più Dio, e quindi non c’è più destino.
Solo molecole che si urtano nel buio, in un eterno esperimento privo di spettatore.
È curioso: l’uomo che voleva emanciparsi da Dio ha finito per creare il più gelido dei dogmi — un dogma che non promette salvezza, ma solo coincidenze fortunate.
La scienza non è colpevole.
È stata l’arte più nobile dell’uomo, la sua curiosità fatta strumento, la sua sete di verità incarnata in metodo.
Ma quando la scienza diventa ideologia, smette di cercare e comincia a credere.
L’evoluzionismo, ridotto a slogan, è il cavallo di Troia del nichilismo: serve a legittimare un mondo senza scopo, dove tutto è relativo, dove la morale è un refuso della biologia.
Un mondo dove il potere economico e tecnologico può finalmente riscrivere la realtà, perché, se tutto è materia, tutto può essere manipolato.
Difendere questo dogma è utile: non perché sia vero, ma perché toglie di mezzo il senso, e con esso la coscienza.
È il modo più elegante per dire: “Nulla importa, perché nulla ha un fine”.
Ma qualcosa, nel fondo dell’uomo, continua a resistere.
Una nostalgia, una fessura nella ragione, una voce che sussurra che non può essere tutto qui.
Che dietro la perfezione di un seme o l’eleganza di un’equazione c’è qualcosa di più di un colpo di fortuna cosmica.
Ribellarsi, oggi, non significa negare la scienza.
Significa restituirle l’umiltà del dubbio, la meraviglia del non sapere. Significa ricordarle che non tutto ciò che conta si può misurare, e che il mistero non è un difetto, ma la condizione stessa della conoscenza.
Il vero nemico della conoscenza non è la fede, ma l’arroganza di chi si crede onnisciente.
Forse è questo, il vero dramma del nostro tempo:
abbiamo smesso di credere nel mistero, ma non abbiamo smesso di credere in noi stessi.
Ci siamo incoronati creatori, ma non sappiamo più creare nulla che non sia artificiale. Abbiamo fatto della materia la nostra divinità, e ci siamo dimenticati dello spirito che la muove.
E così l’uomo, che un tempo guardava le stelle cercando il suo destino, oggi guarda uno schermo e cerca una formula che lo assolva.
Forse è arrivato il momento di un’altra rivoluzione.
Non contro Darwin, ma contro l’uso idolatrico del suo pensiero.
Una rivoluzione del cuore e dell’intelligenza, capace di dire:
non tutto è caso, non tutto è chimica, non tutto è spiegabile.
Che la vita non è un incidente, ma un richiamo.
Un messaggio lasciato dentro la materia per ricordarci che l’universo, forse, non è un meccanismo, ma una preghiera in codice.
E che ribellarsi al caso — finalmente — significa tornare vivi.














